Giovani nella morsa jihadista. "Così si convincono di essere eletti da Dio"
Parla Dounia Bouzard, l’antropologa che in Francia ha fondato il Centro per la prevenzione contro le derive settarie legate all’islam. “I reclutatori adattano la loro ideologia al profilo psicologico di ognuno dei ragazzi. Daesh sviluppa un approccio emotivo ansiogeno sul giovane, spingendolo in una chiave di lettura paranoica della realtà che lo circonda”.
A Napoli è venuta sotto scorta e con la paura di essere oggetto di attentati anche qui, tanto da non voler comparire sui giornali.
È una specialista del rapporto tra l’uomo e la religione e della gestione della laicità e conduce battaglie quotidiane contro la radicalizzazione dell’islam, soprattutto nei ragazzi.
Cinquantatre anni, francese di Grenoble con origini miste nordafricane, Dounia Bouzard è l’antropologa che in Francia ha fondato il Centro per la prevenzione contro le derive settarie legate all’islam (CPDSI) dove sperimenta sul campo i metodi per contrastare il reclutamento dei giovani nell’Isis. A Napoli ha tenuto una conferenza organizzata dall’Institut français con il Dipartimento degli studi umanistici dell’università Federico II, su “Come uscire dalla morsa jihadista”, nell’ambito di un ciclo di riflessioni pubbliche sulla Francia dopo gli eventi parigini del 13 novembre.
Signora Bouzar l’argomento della conferenza di Napoli è anche quello del suo ultimo libro, “Ma meilleure amie s’est fait embrigader” (“La mia migliore amica si è fatta reclutare”, La Martinière, 2016). Ma come è possibile che un adolescente passi da una vita normale a quella della jihad?
«In effetti il reclutamento avviene nel momento in cui l’adolescente, in fase vulnerabile, scopre il discorso jihadista. I reclutatori francofoni adattano la loro ideologia al profilo psicologico di ognuno dei ragazzi e suggeriscono loro un motivo per arruolarsi che corrisponde a un loro ideale e al loro inconscio. Non parlano del vero progetto Daesh: un progetto di sterminio esterno e di purificazione interna… Presentano ai giovani vari miti e fanno credere loro di voler creare un mondo utopico di solidarietà e di fratellanza. Solo quando arrivano sul posto scoprono la verità ma è già troppo tardi. Se tentano di fare marcia indietro, vengono fucilati o sequestrati».
Perché gli amici e la famiglia non si accorgono di niente?
«Daesh sviluppa prima di tutto un approccio emotivo ansiogeno sul giovane, spingendolo in una chiave di lettura paranoica. Viene convinto che il mondo è governato da società segrete che vogliono impadronirsi del potere e della scienza, gli illuminati, e che tutti gli adulti sono sia addormentati sia corrotti da queste società segrete. Il giovane guarda di continuo dei video che lo convincono che tutti gli adulti lo imbrogliano sull’alimentazione, le medicine, i vaccini, la storia, la politica… La fuga e il rigetto della società perfino a volte il progetto di ‘uccidere la società’ sono presentati dai jihadisti come le soluzioni per vincere questa corruzione. Il giovane si convince che è stato eletto da Dio per possedere la Verità e che l’unica vera forza per sconfiggere queste società segrete sia il ‘vero islam’, non quello che risale a 14 secoli fa bensì quello di El Bagdadi. La prima cosa che impara il giovane radicalizzato è dunque di diffidare dei suoi genitori e dei suoi amici, perché non ha neanche più fiducia in loro…».
Si sa ormai che l’estremismo dello Stato Islamico cresce di più su internet che all’interno delle moschee. Quali modalità hanno le campagne di reclutamento attraverso i social?
«Internet permette ai reclutatori di manovrare mascherandosi: non si presentano come reclutatori di Daesh bensì come nuovi amici, seduttori, professori… Lasciano parlare la loro preda per meglio individuarla e motivarla. Una volta che il giovane ha ‘abboccato’ al mito che corrisponde al suo profilo, si possono incontrare fisicamente, ma internet rimane il mezzo di comunicazione privilegiato. Si parlano decine di volte al giorno, anche centinaia di volte, si inviano dei video… Ciò crea un’esaltazione di gruppo. Con questa ‘tribù virtuale’ si istituisce una vera dipendenza, è ciò che viene chiamato reclutamento relazionale e aiuta il reclutamento ideologico. Il giovane, sentendosi in simbiosi col nuovo gruppo, aderirà alla stessa ideologia».
Dalla nebulosa dei reclutamenti emergono ora anche molte jihadiste, attratte con motivi umanitari. Quanto sono consapevoli di ciò che fanno e come si può aiutarle?
«Solo quando arrivano sul posto, le ragazze scoprono che non c’è niente di umanitario in Daesh, che tutti i siriani che non giurano fedeltà vengono uccisi, anche se sono musulmani. Siccome rifiutano l’informazione mediatica durante il loro indottrinamento, considerando che tutti sono complici delle società segrete del potere, le ragazze non guardano i documentari dei giornalisti. La loro unica fonte d’informazione è la propaganda di Daesh sui social network. I jihadisti sanno distinguere le ragazze che hanno dichiarato di voler fare un lavoro altruista, come infermiere e assistenti sociali, e in un certo senso riescono a rovesciare i loro valori umanitari. Fanno vedere loro dei video di bambini avvelenati col gas da Bachar Al Assad facendole sentire in colpa: se veramente vogliono aiutare, devono arruolarsi subito».
I jihadisti sono molto più giovani dei seguaci di Osama Bin Laden. Qual è l’identikit dell’adolescente che si arruola?
«Daesh cerca di fare arrivare quanto più gente è possibile. A differenza di Al Quaïda, Daesh possiede un territorio e vuole popolarlo. Va in cerca di bambini che diventeranno soldati, di donne che faranno bambini, oltre che di uomini… è la prima volta, ad esempio, che delle barrette di cioccolato vengono riprese dai terroristi nei filmati di propaganda! Vogliono rassicurare gli adolescenti mostrando loro che non mancheranno di nulla… Nello stesso modo, per adescare alcune giovane ragazze vulnerabili, le illudono dicendo che vietare la promiscuità le proteggerà. Il “sitar”, vestito che copre anche il viso, è presentato come “lo scrigno che protegge il diamante”… Vengono convinte che un matrimonio con un eroe che sacrifica la propria vita per salvare bambini avvelenati col gas da Al Assad, mentre la comunità internazionale non muove il dito, può solo essere felice e dare sicurezza».
Come si può capire che un adolescente è nella rete jidahista?
«In genere, si può fare la differenza tra un musulmano e un giovane che sta per essere reclutato dai suoi atteggiamenti nei confronti degli altri. Chi sta per radicalizzarsi interrompe i contatti con gli amici, con la scuola, con le sue attività di svago e con la sua famiglia. Si isola e si rinchiude in se stesso. Spesso si rifugia per ore in camera sua navigando su internet e ha dei pensieri da fine del mondo».
In che modo si può aiutare chi è stato circuito?
«Visto che Daesh spinge a un atteggiamento paranoico e a non avere più fiducia in nessuno, bisogna iniziare col rassicurare. Spesso sono le persone più vicine che riescono a creare il legame con lui tramite un approccio emotivo. Poi bisogna fargli prendere coscienza delle bugie racchiuse nella propaganda di Daesh, mostrargli il divario tra ciò che gli viene promesso - il lato umanitario per esempio - e il vero progetto di Daesh: uccidere tutti gli infedeli. Sono proprio i pentiti che spesso riescono a dimostrare tutte le incoerenze, per averle viste e vissute».
Si può definire quella del radicalismo una questione culturale e non specificamente sociale?
«Personalmente, definisco un discorso come radicale quando conduce al rigetto e poi all’odio degli altri. Non è un prodotto sociale o culturale. È il risultato di un reclutamento e di un’ideologia totalitaria. Daesh è un progetto totalitario nel senso in cui uccide delle persone per quello che sono e non per quello che fanno. Daesh vuole distruggere i nostri riferimenti di civiltà, inclusi quelli delle società musulmane. Bisogna unirci per fermarli perché uccidono tutti quelli che non la pensano come loro, inclusi i musulmani».
L’Isis in Francia viene chiamato col nome arabo Daesh per evitare ogni associazione con la parola Islam: qual è il senso profondo di questa distinzione?
«È soprattutto per non riconoscere lo Stato Islamico come un vero stato…»
La Francia ha una tradizione di integrazione molto lontana nel tempo invece da noi si rischia di conoscere l’islam solo attraverso l’Isis e quindi di incrementare l’odio e la discriminazione. Cosa si può fare per educare alla diversità?
«Per fare la differenza tra una semplice conversione e la radicalizzazione, bisogna sempre tener conto dell’effetto del discorso religioso: se accompagna il giovane verso una auto-esclusione e un rifiuto degli altri, allora è radicale. Non bisogna dimenticare l’origine: la parola “religione” proviene da accogliere e collegare, “setta” deriva da tagliare e seguire. Non bisogna riconoscere un comportamento di rottura come prodotto dell’islam. È già un inizio di estremismo».
In una nota stampa lei ha criticato la decisione del governo francese di privare i terroristi della cittadinanza. Ma con quali parametri si può condurre una battaglia culturale contro l’amalgama tra l’Islam e il radicalismo religioso?
«I terroristi distruggono il loro passaporto, che abbiano una o due nazionalità. Non serve a niente negar loro la nazionalità! Inoltre quasi la metà dei jihadisti provengono da famiglie non musulmane e non immigrate, dunque non li si può privare di nazionalità… Bisogna tener ben presente che Daesh è capace di reclutare dei giovani che all’origine non sono musulmani. Altri sono di origine magrebina senza un’educazione religiosa. Direi addirittura che sono rari i ragazzi coinvolti da Daesh e che hanno avuto un insegnamento dell’islam!».