XIV Domenica del Tempo Ordinario *Domenica 7 luglio 2024

Marco 6,1-6

XIV Domenica  del Tempo Ordinario *Domenica 7 luglio 2024

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Non sono lontani i giorni in cui i parenti di Gesù l’hanno creduto «fuori di sé» (Mc 3,21) e quelli del tempio lo hanno giudicato addirittura «posseduto da Belzebul» (3,22), ma, ecco, la situazione si ripete. Infatti, «Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga» (6,1-2). Nazaret è casa sua e con quella gente lui ci ha vissuto ben trent’anni. Qui si conoscono tutti, nel bene e nel male. Ed è proprio per questo che i paesani avvertono immediatamente che lui non è più lui. È più avanti, «fuori» dei loro parametri. Lo sentono addirittura straniero alle tradizioni di sempre. E perché? Perché si mostra capace di trovare nella Parola di Dio, che si legge in sinagoga, sensi così profondi che «molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?» (6,2).

Si tratta di sapienza! E sapienza nella Bibbia non è semplicemente sapere le cose, averle imparate a catechismo e ridirle a memoria. Quello lo facciamo tutti e lo fanno a Gerusalemme quelli del tempio. Lui, è diverso. Quando parla, ogni sua parola insaporisce. Non la testa, ma il cuore. Non è un’idea che va ad aggiungersi a un’enciclopedia, ma un gusto che fa star bene. Come il sale! Ne basta uno spizzico e senti che in bocca tutto si esalta, diversamente dal solito. E così fa la luce! Ne basta un filo all’alba e la notte non si riconosce più, perché si alza un nuovo giorno! Pieno di colori. E così succede quando parla Gesù. Incredibile ma vero. È l’appetito con cui Dio impasta le sue parole. Coloro che l’ascoltano possono essere «una genìa di ribelli, una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri… fino ad oggi» (Ez 2,3), ma il sapore delle parole di Dio lo avvertono subito. È questo che dice Dio a Ezechiele. «Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che – sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro» (2,5)

Far sentire a differenza, metter voglia di cielo, ali di aquila sopra tutti i pollai di piccolo tornaconto, orizzonti luminosi su giorni pieni di nebbia e di rabbia. È questo che deve trasmettere chi parla in nome di Dio. Non allentarne il lievito, attento ad ogni cenno. Lo dice chiaro il salmo responsoriale: «A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli. Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni. Come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi» (Sal 122,1-2)

Sì, è questione di occhi e di mani 

che si inseguono, s’incrociano l’un l’altro, un’intesa perfetta. Dove essere servi non è, come credono tutti, una rinuncia a se stessi, ma significa frequentazione intima, contatto personale. Addirittura quotidiano. Questo erano i servi di Dio Abramo, Mosè, i profeti. Parlavano con Dio bocca a bocca.

Ed è questo che fa Gesù, figlio di Dio. È naturale, quindi, che si senta tutta la differenza dalle solite chiacchiere di paese. È naturale che si abbiano a chiedere: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?» (6,3)

È la giusta meraviglia, che nasce spontanea davanti a ciò che non si conosce. Ma Gesù lo conoscono fin troppo. E così nel giro di un attimo la gente passa dallo stupore più incantato allo scandalo più aperto. La differenza avvertita, invece di unire, destabilizza tutti! Tanto che anche Gesù «si meravigliava della loro incredulità» (6,6): «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,4)

È questo il nostro guaio. Non riusciamo a fare il salto. Avvertiamo la bellezza, la sentiamo passarci accanto, addirittura risuonare dentro, risvegliare gusti nuovi, ma rimaniamo ancorati alla povertà di sempre. Per quanto Dio ci venga incontro, ci parli piano con parabole, venga a casa nostra, noi puntualmente gli mettiamo i paletti. Non ne vogliamo sapere delle sue novità. Rimaniamo quella «genìa di testardi, quella razza di ingrati» che ai tempi di Ezechiele voleva frenare la storia d’Israele.

Ma non è vero neanche questo – si premura di dirci Paolo – perché quel freno lo sento anch’io, che pure vorrei volare in alto sulle nubi per essere con il mio Dio: «È stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi» (2Cor 12,7). Cosa sia oggettivamente questa «spina» non è dato di saperlo. Ma certamente è quella resistenza opaca che, nonostante tutto, ciascuno di noi conserva dentro di sé, anche nelle situazioni migliori. Un dubbio, una malizia, una riserva che ci tiene con i piedi per terra, agganciati in mille modi ai nostri difetti. «A causa di questo – confessa Paolo – per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza» (12,8-9)

Una risposta che ancora una volta destabilizza. Paolo ne dice, però, il motivo: «Affinché io non monti in superbia» (12,7). Dalla voglia di vedere dei risultati, dalla corsa al primo della classe. In fin dei conti quella «spina» scandalizza il mio orgoglio spirituale che godrebbe di mettere da parte qualche merito. E, invece, no! «Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza» (12,8-9). Che fare? 

Ritorno a fare il servo, a mettere la mia vita all’ombra della sua parola: «A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli. Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni» (Sal 122,1). «Mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Non c’è altro da fare! Gustare tutta la profondità della sua parola e stare ai suoi ordini, meravigliati e insieme scandalizzati dall’amore che Dio riserva a noi, «figli testardi e dal cuore indurito»
(Ez 2,4).

frate Silenzio

Sorella allodola

Solo chi ama 

sorprende e destabilizza!

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