“Matrix Resurrections” di Lana Wachowski e “The Tender Bar” di George Clooney dal romanzo di J.R. Moehringer
Al cinema c’è “Matrix Resurrections”, atteso quarto capitolo della saga “Matrix” con protagonisti gli inossidabili (e sempre affascinanti) Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Su Prime Video si trova il film “The Tender Bar” di George Clooney, dal romanzo “Il bar delle grandi speranze” del Premio Pulitzer J.R. Moehringer.
Titoli di grande richiamo a gennaio 2022. Anzitutto al cinema c’è “Matrix Resurrections”, atteso quarto capitolo della saga “Matrix” con protagonisti gli inossidabili (e sempre affascinanti) Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Su Prime Video si trova il film “The Tender Bar” di George Clooney, dal romanzo “Il bar delle grandi speranze” del Premio Pulitzer J.R. Moehringer. Protagonista un intenso Ben Affleck che conta di inserirsi nell’affollata corsa degli Oscar. Il punto Cnvf-Sir.
“Matrix Resurrections” (al cinema)
Timore, non poco timore, per il confronto con il nuovo capitolo della saga “Matrix”, ossia “Matrix Resurrections”, uscito nei cinema italiani dal 1° gennaio 2022. La nota trilogia del duo Wachowski, lanciata quasi in sordina nel 1999 come riflessione futuristica e distopica sulla nostra società, che ricomprende funamboliche citazioni che spaziano dalla letteratura classica o contemporanea al mondo videoludico e dei fumetti, ha vinto nel 2000 ben quattro Premi Oscar per la sua carica di innovazione tecnica e visiva. La trilogia “Matrix” – composta dal secondo capitolo “Matrix Reloaded” e dal terzo “Matrix Revolutions” del 2003 – si è conclusa all’inizio degli anni Duemila aprendo al duo Wachowski le porte di Hollywood e copiosi budget. Tra i loro progetti si ricordano la riuscita sceneggiatura di “V per Vendetta” (2005), i discussi blockbuster “Cloud Atlas” (2012) e “Jupiter. Il destino dell’universo” (2015), e la serie Tv Netflix “Sense8” (2015-18).
A distanza di circa vent’anni dalla trilogia cult “Matrix” Lana Wachowski torna da sola sul “luogo del delitto” rimettendo mano al progetto con la Warner Bros. e il coinvolgimento di quasi tutto il cast originario. Capofila – e assolutamente in splendida forma! – sono sempre Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss, nei panni rispettivamente dello sviluppatore informatico e game designer Thomas Anderson, meglio conosciuto come Neo “l’eletto”, e la guerriera motociclista Trinity. Tra i nuovi volti: Jessica Henwick nei panni dell’hacker Bugs; Neil Patrick Harris nel ruolo di uno psicoterapeuta; e Jonathan Groff, socio di Thomas Anderson e volto dell’Agente Smith (ruolo in precedenza ricoperto da Hugo Weaving).
“Matrix Resurrections”, la storia: dismessi i panni di Neo, Thomas Anderson conduce la sua vita da cinquantenne a capo di una rigogliosa società di videogiochi; seppure sia nell’agiatezza sente di avere degli irrisolti nel proprio passato, ma non riesce a capire il confine tra realtà e allucinazione. Un giorno si presenta da lui l’hacker Bugs su indicazione di Morpheus (Yahya Abdul-Mateen II, iconico ruolo un tempo interpretato da Laurence Fishburne), capitano della comunità di Zion in un mondo parallelo. E così le certezze crollano…
A essere onesti, non è affatto facile maneggiare questo “Matrix Resurrections”. Confronti, infatti, con il primo “Matrix” purtroppo non possono reggere. Occorre però riconoscere in quest’ultimo film un grande sforzo da parte del team ideativo guidato da Lana Wachowski nel trovare la quadra con i capitoli precedenti, mettendo in campo uno continuo gioco di flashback e rimandi per dare compattezza e coerenza alla narrazione tutta. La prima parte, poi, sembra persino prendersi gioco del fenomeno “Matrix” in sé, scandagliando le varie letture e contaminazioni di generi ad esso dedicati, senza trascurarne anche l’ammirazione quasi maniacale. Qui subentrano toni da sberleffo, fortemente (auto)ironici. Operazione coraggiosa.
Quando però la storia entra nel vivo, e la narrazione correre veloce con tensione crescente, allora si ritorna sul vero binario di “Matrix”. Tutto ruota infatti sull’assunzione di responsabilità dell’eroe riluttante Thomas Anderson, che dubita del suo essere il “predestinato” Neo, capace di minare il mondo claustrofobico di Matrix e aprire uno squarcio di speranza per l’umanità.
Elemento convincente – e per certi versi sorprendente – di questo “Matrix Resurrections” è il passaggio dall’Io al Noi, e soprattutto il posto centrale che va a occupare l’amore nel racconto. Neo non è più un eroe solitario, bensì è parte di un Noi, ma prima di tutto di una coppia, quella che si riforma (superando diffuse difficoltà) tra lui e Trinity. L’eroe, dunque, sembra dirci Lana Wachowski, non funziona più da solo, non genera più “salvezza”. Invece, l’amore e la condivisione di un orizzonte progettuale con Trinity danno slancio a tutto e tutti, attivando un moto rivoluzionario che aggrega una comunità valorosa e manda in crash l’illusorio Matrix.
Colpisce, in particolare, nella narrazione il virare della prospettiva dall’eroe maschile a quello femminile: la “salvezza” qui è donna, ed ha il volto magnetico e granitico di Trinity. Un cambio di sguardo anche in linea con il nostro presente e l’impegno che Hollywood sta mettendo nelle sue produzioni: si pensi all’ultima trilogia di “Star Wars” (2015-19 ) e al personaggio di Rey, al recente James Bond “No Time To Die” (2021) o al cartoon Disney “Raya e l’ultimo drago” (2021).
I puristi di “Matrix” potrebbero forse non essere d’accordo, ma nell’insieme “Matrix Revolutions” è un’opera che riesce a convincere e trova proprio senso in questi aspetti menzionati, allargando il campo della riflessione rispetto al passato. Nel film c’è infatti riscatto e speranza, che si accendono proprio nel passaggio dall’Io al Noi; è una riflessione esistenziale probabilmente più articolata, risolta e matura, da non banalizzare. E al di là di qualche trovata ludica autocompiaciuta o di eccessi narrativi, il film marcia spedito con la sua corposa durata di 148 minuti. Dal punto di vista pastorale “Matrix Resurrections” è consigliabile, problematico e per dibattiti.
“The Tender Bar” (su Prime Video)
J.R. Moehringer è un giornalista e scrittore statunitense classe 1964, che ha ottenuto nel 2000 un Premio Pulitzer e si è imposto poi all’attenzione internazionale con i suoi romanzi, dall’autobiografia “Il bar delle grandi speranze” nel 2005 al bestseller “Open”, biografia cult del campione del tennis Andre Agassi. La vita di J.R. Moehringer, raccontata appunto nel suo “memoir” d’esordio, è diventata ora un film diretto dal Premio Oscar George Clooney, con protagonisti Ben Affleck e il giovane Tye Sheridan.
La storia. Stati Uniti anni ’70, a Manhasset nella zona di Long Island (Stato di New York) il giovane Junior – J.R. (Daniel Ranieri/Tye Sheridan) cresce con la madre Dorothy (Lily Rabe), gli eccentrici nonni e il rassicurante zio Charlie (Ben Affleck), che lo guida all’amore per la letteratura. J.R. ha come obiettivo l’Università di Yale e diventare uno scrittore.
George Clooney non è mai scontato né banale. Oltre a essere un valido e pluripremiato attore nonché produttore di cinema e Tv, nel corso della sua lunga carriera ha messo a segno anche delle regie di tutto rispetto, tra cui: “Good Night, and Good Luck” (2005), “Le idi di marzo” (2011), “Monuments Men” (2014) e “The Midnight Sky” (2020). Con il suo ultimo film, “The Tender Bar”, si muove nelle pieghe della periferia povera degli Stati Uniti in cerca di riscatto, un riscatto che passa dai valori e dalla scommessa sull’educazione. Clooney racconta la vita di Moehringer, e in generale il sogno americano. E poco importa se il film non è perfetto, comunque l’impianto è valido e convincente, con una prova maiuscola di Ben Affleck nei panni dello zio Charlie, mentore e custode del cammino di J.R.: l’attore usa tutte le sue corde espressive, di certo ben note, ma con ritrovata tenerezza e luminosità.
Per il resto “The Tender Bar” è un’opera – adattata per lo schermo da William Monahan, Premio Oscar nel 2007 per il copione di “The Departed” – che viaggia quasi nella stessa direzione di “Elegia americana” (2020) di Ron Howard, muovendosi però con più compattezza, atmosfera e persino poesia. Un viaggio esistenziale dall’infanzia all’età adulta di uno scrittore, dove la famiglia occupa un ancoraggio solido nonostante le sue fragilità. “The Tender Bar” è un film affascinante, marcato da composta dolcezza. Dal punto di vista pastorale è consigliabile, problematico e per dibattiti.