In sala “Un altro mondo” e il cartoon “Troppo cattivi”. Su Netflix la serie “Bridgerton 2”
Fa ribollire il sangue il cinema di impegno civile di Stéphane Brizé, regista francese che racconta il lavoro oggi e i suoi affanni. In “Un altro mondo” con Vincent Lindon, in concorso a Venezia78, dà voce a un manager riluttante che dinanzi a richieste di ingiustificati tagli al personale risponde con uno scatto di coscienza. In sala c’è anche il cartoon “Troppo cattivi” di Pierre Perifel, esilarante racconto su una banda di rapinatori assalita dalla tentazione del bene. Infine, su Netflix è arrivata l’attesa seconda stagione della serie “Bridgerton” targata Shonda Rhimes, suggestivo e atipico period drama nell’Era Regency
Fa ribollire il sangue il cinema di impegno civile di Stéphane Brizé, regista francese che racconta il lavoro oggi e i suoi affanni. In “Un altro mondo” con Vincent Lindon, in concorso a Venezia78, dà voce a un manager riluttante che dinanzi a richieste di ingiustificati tagli al personale risponde con uno scatto di coscienza. In sala c’è anche il cartoon “Troppo cattivi” di Pierre Perifel, esilarante racconto su una banda di rapinatori assalita dalla tentazione del bene. Infine, su Netflix è arrivata l’attesa seconda stagione della serie “Bridgerton” targata Shonda Rhimes, suggestivo e atipico period drama nell’Era Regency. Il punto Cnvf-Sir.
“Un altro mondo” (al cinema)
Non sono molti i registi in prima linea nel racconto delle fratture sociali, della condizione degli ultimi che si barcamenano in un mondo del lavoro sempre più instabile e dai diritti erosi.
In Europa oltre al capofila Ken Loach, come pure ai fratelli Dardenne, si è imposto lo sguardo di Stéphane Brizé, francese classe 1966 che si è fatto apprezzare per il suo stile asciutto, scarno, ma di grande umanità. È nei cinema con “Un altro mondo” (“Un autre monde”), film presentato in concorso alla 78a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, dove ha vinto il premio cattolico Signis, un’opera che chiude idealmente la sua trilogia iniziata con “La legge del mercato” (2015) e “In guerra” (2018).
La storia. Francia oggi, Philippe è un dirigente d’azienda cinquantenne. Dopo tanti anni di matrimonio e due figli, la situazione in casa sembra sul punto di implodere: la moglie desidera la separazione sentendosi esausta, costretta a gestire tutto da sola perché il marito è assorbito dal lavoro; il figlio adolescente, poi, manifesta segni di fragilità. A tale quadro si aggiungono le pressioni che la multinazionale riversa su Philippe: dall’America chiedono un netto taglio di posti di lavoro per rilanciare la società. Sulla spinta delle preoccupazioni degli operai della sua fabbrica, Philippe prova a negoziare un piano di risanamento…
Dei tre film firmati da Brizé “Un altro mondo” è di certo il più riuscito e maturo,
perché il regista compone un racconto solido, confermando quello sguardo indagatore sulla diffusa e allarmante precarizzazione del mondo del lavoro, offrendo al contempo una (timida) prospettiva di speranza, un ancoraggio nella crisi rappresentato dai legami familiari. Nello specifico, rispetto ai titoli precedenti, qui al centro del racconto non è l’operaio ma un dirigente, colui che occupa apparentemente una posizione più stabile. Brizé, però, ci mostra come anche per lui le condizioni possano essere spietate. Se il vertice dell’azienda decide di tagliare posti di lavoro oppure delocalizzare lo stabilimento, alla fine tutti sono sulla stessa barca.
Philippe, tratteggiato con grande mestiere e intensità da Vincent Lindon, si trova messo con le spalle al muro:dopo tanti anni di sacrifici, pur avendo raggiunto il posto da dirigente, i problemi di fatto sembrano aumentare a dismisura; l’azienda gli chiede provvedimenti sempre più spregiudicati, ai danni ovviamente dei più indifesi. Ancora, l’eccesso di lavoro ha portato a logorare i rapporti in casa; lui che voleva garantire a tutti benessere e tranquillità, si sta ritrovando solo e impantanato. Brizé ci regala dunque un’istantanea bruciante, un quadro del nostro presente dolente e angoscioso, dove però riescono a trovare posto anche tenerezza e sentimento.Philippe si oppone alle scelte dell’azienda, pagando un caro prezzo, ma ritrovando se stesso e la propria famiglia.
Il futuro è un’incognita, ma non lo affronterà da solo. “Un altro mondo” è consigliabile, problematico e per dibattiti.
“Troppo cattivi. The Bad Guys” (al cinema)
La tentazione di essere buoni. Questo potrebbe essere il titolo alternativo dell’animazione “Troppo cattivi. The Bad Guys”, cartoon di nuovo corso della DreamWorks Animation, diretto da Pierre Perifel su sceneggiatura di Etan Cohen (suo il copione di “Madagascar 2”), ispirata alla serie di libri di Aaron Blabey.
La storia. Una banda di animali ladri, composta da Wolf, Snake, Shark, Piranha e Tarantola, è il nemico pubblico n. 1 della città amministrata dalla governatrice Diane Foxington. Nessuno riesce a fermarli. Durante un colpo, però, Mr. Wolf va in crisi, si scopre tentato dal desiderio di fare una buona azione e di rivedere la propria vita. Ammanettati dalla polizia, i componenti della banda finiscono in un singolare progetto di recupero perorato dal benefattore locale Professor Marmellata…
“Troppo cattivi” è un cartoon che convince per forma e contenuto.Da un lato funzionano la formula grafica, la caratterizzazione dei personaggi principali, “criminali” antropomorfi integrati in una comunità umana, la dinamica del racconto e le battute brillanti, dall’altro la riflessione più ampia sulla vocazione al bene.
Non sappiamo fino in fondo se la banda capitanata da Mr. Wolf sarà capace di resistere alla tentazione di sconfinare di nuovo nell’illegalità, ma di certo è evidente lo sforzo per il cambiamento, motivato anche da valori di amicizia e solidarietà.
Inoltre, il cartoon smaschera forme di falsa carità, che poggiano su un doppio fine o un desiderio di puro esibizionismo. Insomma, temi complessi per un racconto che gira veloce e spumeggiante. Nella versione italiana si segnalano le voci di Valerio Lundini, Saverio Raimondo e Margherita Vicario, mentre in quella statunitense Sam Rockwell e Awkwafina. “Troppo cattivi” è consigliabile, brillante e per dibattiti.
“Bridgerton 2” (su Netflix)
L’esordio di “Bridgerton” il 25 dicembre 2020 ha segnato un deciso successo per la piattaforma Netflix, al punto da sigillare subito future stagioni prodotte dalla geniale sceneggiatrice e producer statunitense Shonda Rhimes (sue sono le serie “Grey’s Anatomy”, “Scandal” e “Le regole del delitto perfetto”).“Bridgerton” è un atipico e innovativo period drama ambientato nell’Era Regency, nei primi decenni del XIX secolo in Inghilterra,
un racconto che esplora le dinamiche della nobiltà londinese, dipinta tra matrimoni che coniugano amore e agiatezza economica, grandi balli e suggestivi tè in ville di campagna. La linea narrativa viene da un ciclo di romanzi scritti da Julia Quinn.
Qual è la particolarità di “Bridgerton”?
Saper utilizzare il consolidato tracciato narrativo messo a punto principalmente da Jane Austen, con i suoi romanzi stratificati di sentimento ma anche di questioni sociali, con una chiara valorizzazione del ruolo della donna e della sua libertà di scelta, in una cornice sempre gentile ed elegante.
Su tale binario, la Rhimes e il creatore Chris Van Dusen hanno innestato degli elementi spaesanti e dichiaratamente attuali. Anzitutto un uso del colore, di tonalità pastello virate in chiave luminosa, a tratti (ultra)pop, che vanno di pari passo con costumi eleganti oscillanti anche verso l’eccesso (l’“outfit” della regina). Ancora, una valorizzazione trascinante di brani rock riarrangiati in chiave classica (applausi!): nella seconda stagione “Wrecking Ball”, “Material Girl”, “Diamonds” e “Sign of the Times”. Infine, le sfumature del sentimento sono state integrate anche da un diffuso erotismo, soprattutto a favore di una prospettiva femminile.
In “Bridgerton 2” (8 episodi da 50’-70’) tornano quasi tutti gli elementi forti del racconto, anche se la linea narrativa – che vede protagonista il visconte Anthony Bridgerton (Jonathan Bailey), ossessionato dall’idea del matrimonio perfetto, indeciso tra le sorelle Kate (Simone Ashley) ed Edwina Sharma (Charithra Chandran) – è più conforme allo stile classico del period drama, senza eccessi “destabilizzanti” (ridimensionata la componente erotica).
Nell’insieme si registra uno stile più composto, rodato, comunque brillante, capace di capitalizzare ascolto e di garantire romantica evasione.
La serie “Bridgerton” è consigliabile, semplice.