La grande rimozione. I rapporti tra letteratura e fede sono assai più profondi di quanto si creda
Tutta la letteratura mondiale è un proliferare di libri in cui l’elemento religioso, comunque lo si veda, è vivo e vegeto.
Dà fastidio ammettere che laicissimi scrittori possano avere radici anche religiose. Eppure i contatti tra letteratura e religione sono molto più profondi di quanto si possa pensare, anche tra gli insospettabili. Prendiamo Pirandello e il suo ultimo romanzo, “Uno nessuno e centomila” uscito nel 1925. Il protagonista è Vitangelo, benestante cittadino, che ha ereditato una banca dal padre. Non deve fare nulla: ci pensano due fedeli impiegati a far fruttare gli interessi, e Gengè, come infantilmente lo chiama la moglie, vive beato e nullafacente.
Un giorno però la consorte gli fa notare che il naso gli “pende verso destra”, mentre lui non se ne era mai accorto, e inizia così un lento cammino verso l’appropriazione del suo vero sé, fino all’abbandono dei vecchi abiti borghesi e la volontaria scelta di vivere, povero, in un ospizio costruito con i suoi stessi soldi. Il lettore – gran parte della critica ha fatto finta di non accorgersene – avrà notato che il laicissimo Pirandello attinge a piene mani da un episodio avvenuto probabilmente nel 1206 ad Assisi: la rinuncia di san Francesco alla ricchezza.
Se si avrà la pazienza – e il piacere – di leggere uno dei romanzi capitali del Novecento, si noterà una serie di impressionanti punti di contatto tra le due storie: un padre “ingombrante”, un passato da signorino viziato, la “maschera” di folle che la comunità applica a tutti e due i protagonisti, l’abbandono dei vecchi abiti, con la spoliazione del santo e la rinuncia ai bei vestiti di Vitangelo, l’assunzione dell’abito del povero, la mediazione della Chiesa in ambedue gli episodi. E’ un vescovo ad accogliere il “nuovo” Francesco, ed è in una sede vescovile che nel romanzo matura la scelta di donare tutto ai poveri. La presenza di poveri veri, che all’inizio spaventano i protagonisti e poi divengono oggetto di cura.
C’è poi il nuovo rapporto con il creato, da san Francesco sublimato nell’amore universale del Cantico di Frate Sole e in Pirandello in una delle più belle pagine mai scritte su questo tema: “La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”. E la presenza di un Dio, in Francesco visto come creatore premuroso e nel romanzo pirandelliano, cui è dedicato un intero paragrafo, come voce interiore, un “Dio che si sente ferire in me” nel rendersi conto dell’inutilità della vecchia maschera sociale, quella di ricco sciocco e inutile.
Quando lo scrittore Hermann Hesse, anche lui in fuga dal materialismo e dal conformismo, nei primi del Novecento venne ad Assisi, rimase abbagliato, a distanza di settecento anni, dal fascino di Francesco, tanto da chiamare il santo una delle “benevole guide nel peregrinare degli uomini nelle tenebre”. Ma tutta la letteratura mondiale è un proliferare di libri in cui l’elemento religioso, comunque lo si veda, è vivo e vegeto: basterebbe sapere che una delle più grandi scrittrici di oggi, Marilynne Robinson, è anche teologa. Ma questo, chissà perché, non lo si dice in giro.
Marco Testi