Il narratore della storia profonda. La scomparsa dello scrittore Paolo Maurensig
Maurensig è stato il narratore dell’effetto prospettico di distorsione della storia.
La morte di Paolo Maurensig, nato a Gorizia nel 1943, oltre al dolore per la scomparsa di un nostro importante scrittore, ci fa riflettere anche su una singolarità: la straordinaria contiguità con un altro narratore mitteleuropeo, Italo Svevo, anche lui votato alla narrazione della scissione psichica e della presenza di altre arti nella letteratura, anche lui al lavoro nel campo del commercio, oltre a quello bancario. Ma questo non basta a definire qualcuno come appartenente ad una certa medesima corrente culturale. Maurensig ha costruito il suo successo di scrittore soprattutto sulla narrazione di due arti, gli scacchi e la musica, con “La variante di Lüneburg” (Adelphi, 1993) e “Canone inverso” (Mondadori, 1996), due romanzi che lo hanno fatto conoscere a livello internazionale, grazie anche alle trasposizioni cinematografiche, musicali e teatrali.
L’appartenenza alla cultura dell’Europa asburgica, la cosiddetta mitteleuropa, è sempre impugnabile: il declino di quella stagione è stato narrato da scrittori molto più arretrati cronologicamente, mentre il nostro contemporaneo Maurensig è stato il narratore dell’effetto prospettico di distorsione della storia. Nella “Variante di Lüneburg” si insinua il grande, millenario enigma di come l’orrore delle persecuzioni razziali, della tortura inflitta a milioni di persone, vecchi e bambini inclusi, sia stato gestito dall’abitudine, dalla noncuranza nel momento stesso in cui accadeva. Questo di Maurensig non è solo il racconto di una partita a scacchi tra il genio della vittima e quello del demone persecutore, ma di come lentamente si sia passati dalle storielle alla derisione privata e poi pubblica alle percosse, alle leggi razziali e poi alle camere a gas. Il ragazzo ebreo che personifica una delle incarnazioni del genio, in questo caso quello degli scacchi, si rende conto di come nella lotta per la sopravvivenza dell’uomo, quando l’orrore diventa storia, si sviluppano cecità, rimozioni, comprensioni per il carnefice, teorizzazioni che in situazioni di “normalità” sembrerebbero un incubo, e che eppure hanno dominato – non solo l’Europa – per un certo percorso del secolo breve.
Ma lo scrittore goriziano non ha affisso manifesti teorici che avrebbero sbilanciato i suoi racconti verso la denuncia, la biografia, il documento: la narrazione dell’incubo si svolge attraverso una scrittura calma, distesa, preoccupata di delineare le sfumature più sottili attraverso una sorprendente, sinuosa conseguenzialità del periodo: “La mia mente era in grembo al Grande Suggeritore, a allora spaziavo sulla scacchiera come uno sparviero che vola sopra un campo, e al cui sguardo non un fremito di foglia può sfuggire” ricorda il ragazzo prodigio quando capisce che dall’esito delle sue mosse dipende la sopravvivenza altrui.
Maurensig è riuscito a narrare il sospetto dell’insensatezza della storia e il confronto con il divino, la schizofrenia geniale che crea nuovi, destabilizzanti mondi di senso, come accade in “Canone inverso” e gli abissi della depravazione spacciata per rivendicazione di nuovi spazi, territoriali e psichici. Forse solo Irvin Yalom con “Il problema Spinoza” è riuscito, in anni relativamente recenti, a sondare con altrettanta profondità quelle pieghe dell’animo che diventano ferite e poi infezioni più profonde, attraverso, stavolta, la filosofia, oltre che la storia (Rosenberg e le sue teorie) e la letteratura (Goethe).
Ci ha lasciati uno scrittore che dell’eleganza narrativa non ha fatto un motivo unicamente estetico – e sterile – ma il veicolo del viaggio profondo verso i lati più oscuri dell’anima umana.