Il cohousing, da “esperienza di nicchia a risposta al bisogno”. Servono risorse e cultura
Intervista a Chiara Casotti, cohouser, progettista sociale e presidente di Casematte. “Con la pandemia, le richiesta sono aumentate: non solo anziani, ma anche famiglie intorno ai 40 anni. Ma in Italia lo Stato non investe. E siamo in attesa del riconoscimento delle comunità intenzionali. Cohousing è ottima risposta anche per anziani e persone con disabilità”
Cohousing, housing sociale, coabitazioni solidali: sono tanti i modelli di condivisione dell'abitare che, dal Nord Europa, stanno iniziando a diffondersi in Nord Italia e, più faticosamente, nel resto del nostro Paese. E la pandemia ha destato un interesse nuovo verso questa possibilità, che riduce l'isolamento e garantisce la condivisione non solo di spazi, ma anche di tempi e di servizi. Eppure, “continua ad essere ancora un'esperienza di nicchia, che pochi intraprendono, sia per le difficoltà burocratiche e pratiche, sia per una resistenza culturale e, in fondo, una diffusa ignoranza. Avremmo bisogno di mettere a sistema le esperienze positive, raccontarle e mostrarle, perché in tanti capiscano che davvero si può fare. E, secondo me, conviene farlo”. A fare il punto è Chiara Casotti, lei stessa “cohouser” ma anche progettista sociale, attenta studiosa di questo modello, che promuove tramite e associazioni Casematte – di cui è presidente - e CoAbitare e la Rete italiana Cohousing e Abitare collaborativo.
Innanzitutto, le parole giuste per dirlo: cohousing o housing sociale? Che differenza c'è tra queste due espressioni? Ne esistono altre, che indicano diverse “varianti” di questo modello?
Il cohousing è un’espressione di origine anglosassone, si può tradurre sostanzialmente come “abitare collaborativo”. Indica una comunità intenzionale in cui più nuclei famigliari decidono di abitare vicini, collaborando fra loro: nuclei familiari - diversi per tipo, età, provenienza sociale e interessi - che hanno un loro appartamento privato più o meno grande e spazi comuni. L’housing sociale è un servizio che offre alloggi a canoni calmierati, promuove la formazione di smart communities con spazi condivisi, strumenti e servizi.
Più in generale si può parlare di abitare collaborativo, ma bisogna fare molta chiarezza sui termini. L'abitare solidale, o housing sociale, è una condivisione totale degli spazi, spesso intorno a delle fragilità. Particolarmente interessante è l'esperienza di Abitare Solidale in Toscana. Diversamente, nel cohousing le persone o le famiglie vivono in unità abitative completamente autonome, condividendo poi spazi comuni e servizi con gli altri cohouser.
L'esperienza è nata in Nord Europa: in che misura è sviluppata e continua a svilupparsi lì? E qual è invece la storia “italiana” del cohousing?
Il cohousing nasce in Nordeuropa negli anni Settanta, come evoluzione delle 'kollektìv_hus' svedesi della metà del 900, che presentavano spazi e servizi comuni per aiutare le donne, lavoratrici a conciliare lavoro e famiglia. In Italia arriva negli anni Duemila e inizia a svilupparsi attraverso Cohousing.it di Milano, una società di professionisti che agisce come intermediario sul mercato e che ha realizzato, nel 2006, il primo esempio italiano, l'Urban Village Bovisa. I numeri in Italia sono ancora bassi, poche decine (circa 30), perché i cohousing nascono da iniziative private in acquisto: iniziative che non sono sostenute dallo Stato, come avviene invece in altri paesi europei, dove esiste anche l'opzione dell'affitto. L’unica eccezione è “Porto 15” a Bologna, un cohousing pubblico in affitto. Nel nostro Paese, il cohousing si sta sviluppando per lo più al Nord: in Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Toscana.
In generale, qual è lo scopo del cohousing?
Lo scopo generale è creare “spazi di tutti che favoriscono l’interazione, e quindi la relazione”. Il cohousing è un modello abitativo che mette al centro le relazioni tra le persone ed è frutto di un lungo percorso, in cui ognuno dà un contributo in prima persona per arrivare a definirne tutti gli aspetti. Condividere scelte, beni e servizi rafforza il gruppo, oltre a produrre notevoli risparmi economici.
Cosa manca, nel nostro paese, per rendere strutturale e sostenibile questo modello di vita?
Intanto manca una legge che renda questi modelli residenziali un soggetto giuridico a tutti gli effetti e ne semplifichi quindi la fattibilità. Fondamentale sarebbe, per esempio, la possibilità di accedere a un prestito bancario, senza dovere costituire una cooperativa oppure pagare la tassa rifiuti senza essere considerati un albergo. Perché sì, succede anche questo... C'è una proposta di legge per il riconoscimento delle comunità intenzionali, ferma in Parlamento: noi ne sollecitiamo l'approvazione. Manca però anche una cultura ed è questo uno dei motivi per cui un modello che presenta notevoli vantaggi economici e sociali, fatica ad affermarsi. Incontriamo molta resistenza quando parliamo di cohousing: una resistenza dovuta a una scarsa conoscenza. Per questo, come Rete italiana Cohousing, insieme alla Rete ecovillaggi e alla rete delle Coabitazioni solidali aderiremo all' iniziativa europea di maggio, che aprirà le porte delle comunità intenzionali. Un'iniziativa partita dall'Olanda nel 2009 come “Intentional Communities Day” e poi ripresa in altri Paesi del nordeuropa e ora anche dall'Italia. L'obiettivo è far conoscere per promuovere e diffondere.
La pandemia ha fatto crescere l'interesse verso questa possibilità?
Penso di sì: a noi arrivano tante richieste di persone che vogliono compiere una svolta nell'ambito del modello abitativo: hanno iniziato a contattarci anche famiglie intorno ai 40 anni, oppure tanti pensionati giovani o vicini alla pensione. Sono soprattutto persone sole, ma anche qualche coppia, per lo più senza figli o con figli lontani, oppure con figli che sono loro stessi in difficoltà, per cui i genitori non vogliono pesare sulle loro spalle.
Per gli anziani, che soprattutto con la pandemia hanno sofferto una condizione di isolamento, questa sembra una soluzione particolarmente indicata...
Sì, è certamente una valida alternativa all'istituto. Recentemente, per esempio, per il progetto di abitare solidale a Torino, mi sono stati segnalate alcune donne anziane sole, che vivevano in case di proprietà: sono state convinte, o dal medico curante o dai parenti, a vendere casa e usare i soldi per pagare un pensionato, dove aspetteranno poi solo di morire. Ma perché non suggerire un cohousing, dove invece la vecchiaia è bellissima? Per chi non ha bisogni di assistenza, finire in istituto è un delitto. Mi batterò perché non succeda.
A Torino, nella mia associazione Coabitare, c'è un gruppo di pensionate giovani che sta facendo pressione per realizzare un cohousing per donne anziane, sul modello di un'esperienza inglese di “Owch”m che sta per “Older Women's Co-Housing”: un'esperienza di grande valore, che ha richiesto ben 16 anni di lavoro per essere messa in piedi. In Inghilterra, il governo ha favorito lo sviluppo di questo modello, con un finanziamento destinato, tra l'altro, alla realizzazione di un sito nazionale in cui confluiscono tutti i cohousing esistenti e quelli in via di realizzazione. In Italia, questo sostegno manca, come manca un sito di riferimento: abbiamo la pagina Fabebook della Rete, che però è molto dispersiva e poco funzionale. Sarebbe ora che il governo investisse per favorire questi modelli. In questo momento storico in particolare, da esperienza di nicchia di militanza il cohousing può imporsi come risposta a un bisogno.
E per le disabilità?
Anche in quel caso il cohousing può essere una grande risorsa: pensiamo al Dopo di noi, al pensiero che i genitori hanno per il futuro dei loro figli, quando loro non ci saranno più. Anche l'assistenza, poi, può essere condivisa, portando un'ottimizzazione delle risorse. Ci hanno contattato, tempo fa, due adulti con sclerosi multipla, che avevano scritto un progetto per realizzare un cohousing per persone che vivono la loro stessa condizione. Ci spiegavano che non vogliono pesare sui genitori che invecchiano, o sui fratelli che hanno diritto alla propria libertà. E poi pensavano alla possibilità di condividere momenti difficili e noiosi come le terapie, ottimizzando i costi ma anche rendendo, attraverso la condivisione, l'esperienza meno pesante e faticosa. Non siamo riusciti, finora, a trovare sostegno e finanziamento per questo progetto. Cercheremo di fare tutti i tentativi possibili. In Inghilterra è stato fatto uno studio sul risparmio economico che deriva dal mantenere una persona anziana in un contesto collaborativo: dovremmo fare studi del genere anche in Italia. Dovremmo fare tanto, in Italia, per favorire il diffondersi di un modello che può rendere il nostro futuro più semplice e più bello.
Chiara Ludovisi