Grande Torino: ogni vittoria granata era la consolazione di un “popolo”
Ogni vittoria, ogni scudetto granata era la consolazione di un “popolo” che magari lavorava alla Fiat, abitava nelle case Fiat: ma sentiva fortissimo il bisogno di essere diverso, di conservare una propria autonomia – di pensiero, di ideali. Ovviamente bisogna rifuggire dall’equazione torinista = comunista. Ma certi sentimenti si confondevano
“L’urlo di una folla non sorprende; si è assiepata per quello; e non sgomenta. Il silenzio di mezzo milione di persone percuote direttamente il cervelletto, uno si svuota di encefalo e visceri; è un silenzio irreale, dolorosamente impossibile; non rientra nell’esperienza di alcuno; pure quando morì la squadra del Torino, 4 maggio 1949, la città non bevve non mangiò non fumò non respirò tutto il pomeriggio del funerale; sugli alberi sui tetti salì perché in istrada tutti non ci stavano; in un silenzio come avanti la creazione; piangevano, molti; molti su mezzo milione vuol dire molti; il corteo progrediva verso il crepuscolo non producendo più rumore della luce che si ritirava”.
Valdo Fusi non era neanche torinese, era nato a Pavia. Ma alla sua vera città dedicò uno dei libri più belli e coinvolgenti che siano mai usciti, “Torino un po’”: una guida sentimentale storica artistica e romantica non come quelle di oggi che si occupano solo delle trippe (dove mangiare, dove bere, dove ballare…). Per Fusi, testimone della città, quel funerale del Grande Torino fu davvero una pagina della storia civile – un’emozione collettiva che è rimasta a segnare le generazioni.
Per molti anni e ancora adesso da ogni parte d’Italia la gente comincia la propria giornata torinese con il pellegrinaggio a Superga, là dietro la basilica dove l’aereo si schiantò. E non sono soli i tifosi del Toro, a salire.
Quella squadra rappresentava molti riscatti. L’Italia era uscita sconfitta dalla guerra (malgrado la Resistenza), e la gente lo sapeva benissimo: a Parigi nel 1946 De Gasperi stava dalla parte sbagliata del tavolo, e de Gaulle aveva pronto un piano di annessione che avrebbe dovuto portare alla Francia non solo la val d’Aosta ma tutto il Piemonte occidentale, Cuneo e Torino comprese. Sarebbe tornato il “Département du Pô” come ai tempi di Napoleone…
Sui campi di calcio, poi, il Grande Torino era subentrato nel ciclo di campionati dominati dalla Juventus negli anni ’30, portando un tasso di tecnica e una forza di squadra rimasti forse insuperati. E comunque il Torino era “popolare”, mentre la Juventus rimaneva – nel bene e nel male – la squadra del padrone: il padrone della fabbrica, delle scuole di avviamento professionale, della mutua, degli alloggi per gli operai. Tutto era targato Fiat. Anche i meridionali che arrivavano a lavorare si mettevano subito a tifare Juventus.
Ogni vittoria, ogni scudetto granata era la consolazione di un “popolo” che magari lavorava alla Fiat, abitava nelle case Fiat: ma sentiva fortissimo il bisogno di essere diverso, di conservare una propria autonomia – di pensiero, di ideali. Ovviamente bisogna rifuggire dall’equazione torinista = comunista. Ma certi sentimenti si confondevano.
In tempi più pacifici la rivalità fra le due squadra – fra le due anime di Torino – si è incanalata su binari più civili, con pochissimi spazi agli ultrà, da ambo le parti.
Oggi i tifosi del Torino Calcio non si preoccupano nemmeno più di gufare la Juve, e neanche di perdere i campionati vincendo almeno i derby. Ai torinisti basta far voti ai loro dèi perché la Coppa, quella che continua a mancare, rimanga un sogno. E fino ad ora vengono regolarmente esauditi – con quelle due sole eccezioni (1985, 1996), di cui una è la coppa insanguinata di Bruxelles – Heysel.
Il calendario ha messo il derby nel giorno del ricordo, nell’anniversario tondo: ed è difficile pensare che non sia la scadenza migliore possibile. Per ricordare i morti di Superga e di Bruxelles ma, e molto più, perché quelle due squadre sono parti della stessa anima, della stessa città. E lo sappiamo tutti benissimo.