Vittorio Bachelet. La Valle: “Mi è apparso sempre come l’emblema stesso della fermezza della fede”
Il giornalista ricorda quando si sono conosciuti, da ragazzi e l'amicizia che è proseguita nel tempo. Del giurista, ucciso dalle Brigate Rosse il 12 febbraio 1980, all'Università la Sapienza, ricorda "la dirittura, il tratto fermo e gentile, la sua visione salda e tranquilla delle cose". "Per me - ci dice - è un dono già grande quello che egli è stato in vita, per la sua famiglia, per gli amici, per la Chiesa, per lo Stato. Se non ci fosse stato questo dono, a motivo dell’amore, non l’avrebbero ucciso"
Vittorio Bachelet, di cui oggi, 12 febbraio, ricordiamo il 40° della morte, per mano delle Brigate Rosse, nei ricordi di un suo amico, il giornalista Raniero La Valle. Di lui, conosciuto quando erano ancora ragazzi, sottolinea “la dirittura, il tratto fermo e gentile, la sua visione salda e tranquilla delle cose”. “Da allora, e fino alla sua morte, Vittorio mi è apparso come l’emblema stesso della fermezza nella fede”, ci racconta.
Quando ha conosciuto Bachelet?
Ho incontrato Vittorio Bachelet quando ero ancora quasi un bambino, nel campo di calcio che ogni domenica pomeriggio raggiungevamo sulla via Aurelia antica con il card. Massimi e gli altri ragazzi che quel santo cardinale, conservatore e progressista a suo modo, raccoglieva nella Congregazione eucaristica che per la messa e il catechismo domenicale si riuniva nella chiesa di san Claudio a Roma, a un passo dalla Rinascente di piazza Colonna.
Massimo Massimi (don Massimo, come si faceva chiamare) non sembrava un cardinale di Santa Romana Chiesa; vestiva sempre con la tonaca nera, era umile e dimesso, viaggiava su una Fiat utilitaria, guidata dal suo fedele autista Marco, e curava i suoi congregati adolescenti o già più adulti come perle da consegnare alla Chiesa e alla società. Ma era un uomo di Curia importante, un grande giurista, era prefetto della Segnatura Apostolica e noi ragazzi fummo estremamente stupiti quando per un Concistoro in san Pietro lo vedemmo sfilare in corteo con uno strascico di tredici metri. Era un conservatore, quanto alla dottrina (“La nostra fede” e “La nostra legge” erano i titoli dei suoi libri); si gloriava della Congregazione che aveva fondato proclamandola “eucaristica e arcimariana!”; ma era un progressista spinto per quei tempi, perché era antifascista e antinazista, e quando Roma fu occupata dai tedeschi, predicava contro il potere liberticida e violento, gridava per gli ebrei e i ragazzi più esposti se li portava in macchina con sé per farli sfuggire alle retate. Ma se qualcuno, sotto il cappotto, era vestito da Balilla, venendo da un’adunata, lo faceva scendere bruscamente dalla sua auto.
Com’era il suo amico Vittorio?
Vittorio Bachelet fu educato in quel contesto, che ho appena descritto, e anch’io; e questo spiega molto della sua dirittura, del suo tratto fermo e gentile, della sua visione salda e tranquilla delle cose. Da allora, e fino alla sua morte,
Vittorio mi è apparso come l’emblema stesso della fermezza nella fede;
e a lui debbo la svolta impressa alla mia vita, perché mi fece entrare alla Fuci, ma non come una semplice matricola, bensì come segretario del Consiglio superiore, quando egli lasciò quella carica e quel sodalizio di universitari cattolici, per intraprendere la sua carriera accademica di maestro del diritto, e mi fece andare al posto suo a sedere e a formarmi in quell’alto consesso. Prendemmo strade diverse. Le sue sono ben note e lo portarono al vertice dell’Azione Cattolica e della magistratura; le mie furono quelle del giornalismo. Esse si incontrarono di nuovo quando, lui presidente del laicato cattolico, io direttore dell’“Avvenire d’Italia” che a quel laicato, e non solo, raccontava il Concilio, Vittorio venne a Bologna per inaugurare la nuova sede del giornale e celebrare i settant’anni della sua storia gloriosa.
Un’amicizia, un affetto, una stima che non vennero mai meno.
Secondo lei, la morte di Bachelet di che cosa ha privato l’Italia?
Che cosa sarebbe stato Vittorio se avessero lasciato che continuasse a vivere? Questo è naturalmente un mistero nascosto nel grembo di Dio.
Per me è un dono già grande quello che egli è stato in vita, per la sua famiglia, per gli amici, per la Chiesa, per lo Stato. Se non ci fosse stato questo dono, a motivo dell’amore, non l’avrebbero ucciso.
Qual era il rapporto di Bachelet con la Chiesa?
Mi dispiace che gli sia stata negata la gioia di conoscere un Papa come Francesco, un Papa così diverso dal suo Papa fucino. Io penso che ne sarebbe rimasto stupito: il rapporto di Vittorio con la Chiesa non era quello di chi sentisse il bisogno di chissà quali cambiamenti e riforme; come molti della sua generazione che avevano una fede matura e vivevano già un felice e liberante rapporto con la Chiesa, non aveva nessun assillo di revisioni e audacie pastorali.
L’“aggiornamento” certo lo voleva e anche la cosiddetta “scelta religiosa” nell’apostolato laico italiano la visse e propugnò in questo spirito; ma appunto l’aggiornamento era già venuto con il Concilio, che per molti cattolici illuminati suonò più come la conferma della visione che già avevano (come ad esempio nel rapporto con la democrazia) che come premessa e stimolo a cieli nuovi e a terre nuove, a una visione ancora non esperita, a un futuro ancora ignoto.
Ma a questo punto a essere interrogata non deve essere la biografia di uomini, ma la biografia dello Spirito.