Primo giorno di scuola. Mortari (pedagogista): “Attenzione anche a dimensione affettiva, spirituale e relazionale dei ragazzi”
Oltre 4 milioni di studenti tornano in classe. Per la pedagogista potranno finalmente ricominciare ad "imparare facendo". Ma occorre "ripensare radicalmente la formazione degli insegnanti". Fondamentale un'educazione intesa anche come cura della dimensione affettiva, spirituale e relazionale dei ragazzi
Ritorno tra i banchi per gli oltre quattro milioni di studenti di Abruzzo, Basilicata, Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Umbria, Veneto, Valle d’Aosta e Provincia autonoma di Trento, mentre in quella di Bolzano le lezioni sono riprese il 6 settembre. Le scuole riapriranno gradualmente nelle altre regioni fino al 20 settembre. Green pass obbligatorio per tutto il personale – docente e non docente – e finalmente didattica in presenza. Aumento della dispersione scolastica, abbassamento dei livelli di competenze rilevati dalle prove Invalsi, crescita del disagio psicologico ed emotivo e degli accessi ai Pronto soccorso per atti di autolesionismo o tentato suicidio: quale prezzo hanno pagato i ragazzi alla pandemia? E gli insegnanti? Come ripartire? Lo abbiamo chiesto a Luigina Mortari, direttrice del Dipartimento di Scienze umane dell’Università degli studi di Verona dove insegna pedagogia generale e sociale. Una settimana fa il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi la ha nominata presidente di Indire (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa).
“Non ci sono dubbi – esordisce la docente – che la pandemia abbia costituito un problema dal punto di vista sociale, culturale e politico; si tratta di capire in che modo abbia agito sul tessuto scolastico. Abbiamo visto molti insegnanti lavorare intensivamente per organizzare dal nulla la didattica a distanza alla quale nessuno era preparato, trascorrendo le serate a predisporre i materiali per il giorno dopo, in mancanza di formazione e strumenti adeguati. Questo va riconosciuto, così come il particolare impegno di quei docenti – non pochi – che hanno dedicato ore a recuperare alunni delle primarie e studenti nelle superiori che erano rimasti indietro. Una maestra molto brava diceva che i bambini a distanza si perdono. La mancanza di contatto rende la comunicazione molto difficile:
se in presenza un bimbo riesce ad ascoltare per mezz’ora una presentazione da parte dell’insegnante, a distanza la sua capacità di attenzione si riduce ad un terzo”.
Agli studenti che cosa è mancato di più?
Oltre che del rapporto diretto con l’insegnante, si sono trovati privati anche di quello con i compagni e inseriti, come fossero oggetti, all’interno di un contenitore nel quale la comunicazione può passare solo i contenuti disciplinari del processo di formazione, mentre
la comunicazione educativa presuppone un’attenzione profonda anche alla dimensione affettiva, spirituale, sociale e relazionale dei ragazzi.
Al loro bisogno di esperienze estetiche di alto valore, necessarie per poter crescere. E’ questo a costituire il nocciolo dell’educazione che è, nel suo insieme, un avere cura del ragazzo o del giovane che ci viene affidato e, da parte sua, un “imparare facendo”. Nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria
la Dad ha potuto tenere in vita solo il momento informativo dell’educazione, non il momento formativo.
Infatti molti ragazzi si sono “persi”, soprattutto nelle aree più svantaggiate.
In particolare nelle aree già a rischio educativo la povertà acuisce ogni tipo di difficoltà. Occorre tuttavia riconoscere che sulla scuola italiana gravano moltissime richieste – educazione, formazione, attività di sostegno sociale -, senza che essa sia realmente radicata sul territorio con strutture che la supportino nei momenti di crisi.
Che cosa ci insegna la pandemia?
Ci mostra anzitutto
la necessità di ripensare radicalmente la formazione degli insegnanti,
in Italia trascurata ormai da decenni. Tutte le altre figure professionali hanno percorsi mirati, nel mondo degli insegnanti questo non avviene. Come si può pensare di avere un’offerta formativa di alto livello se le persone chiamate ad insegnare non hanno a loro volta percorsi qualificanti? Il titolo universitario non basta. Ad eccezione dei docenti della scuola primaria e dell’infanzia, gli altri non dispongono di percorsi finalizzati ad apprendere le metodologie didattiche.
Una grave lacuna…
…che rivela un’assoluta disattenzione alla formazione dei docenti per i quali uno dei requisiti di ammissione al concorso è il possesso di 24 crediti formativi (Cfu) in discipline antropo-psico-pedagogiche e in metodologie e tecnologie didattiche, acquisibili attraverso corsi specifici che gli atenei attivano senza ricevere alcun sostegno dal Miur. Ma 24 Cfu per avere frequentato questi quattro corsi a livello informativo non danno certo la capacità di gestire una classe. Per fortuna con il ministro Bianchi è in corso un’inversione di tendenza: è infatti allo studio un progetto di formazione per i docenti, ma questo da solo non basta.
Di che altro c’è bisogno?
Anche di un nuovo modo di concepire la scuola come edificio. Abbiamo istituti cadenti mentre le scuole dovrebbero essere luoghi accoglienti, dove stare volentieri durante la giornata; centri aperti le cui aule il pomeriggio possano ospitare laboratori. Non mi stancherò mai di ripetere che si diventa cittadini non solo perché si apprendono storia, geografia e matematica, ma anche perché si fa esperienza di arte, musica, di quella bellezza che nutre ed eleva lo spirito. Guardo con interesse ad una proposta di legge volta ad introdurre a scuola la figura del pedagogista, chiamato ad esercitare funzioni di progettazione, coordinamento e supervisione delle azioni formative e quindi di supporto agli insegnanti nell’organizzazione di questi spazi di arricchimento del curriculum.
Qualcuno potrebbe obiettare: inutili tutte queste “educazioni”, basta una buona formazione culturale.
Rispondo con le parole di Hannah Arendt (filosofa e storica tedesca di origini ebraiche naturalizzata statunitense dopo il ritiro della cittadinanza tedesca nel 1937, ndr): “La formazione che ho ricevuto in Germania non è mai stata adeguata perché non mi ha preparato moralmente a vedere lo sfascio politico nel quale siamo caduti”.
Da una settimana alla guida di Indire, quali saranno le priorità del suo impegno?
Intendo in primo luogo incontrare tutti i ricercatori che lavorano nell’Istituto e con loro progettare le attività future, valorizzando naturalmente quello che stanno già facendo e ascoltando le prospettive che hanno maturato in questi ultimi mesi.
Il principio che ispirerà il mio lavoro è quello di mettere Indire a servizio vero delle scuole.