Prescrizione, Giovanni Maria Flick: “Occorre rifondare l’intero sistema”
Il presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia interviene sul tema che mina la stabilità del governo auspicando una riforma che “parta dalla testa e non dalla coda”
ROMA - Diritti degli imputati e dei condannati, ma anche delle vittime dei reati. Ragionevole durata dei processi ma anche necessità di avere giustizia. Oblio ma anche memoria dei fatti accaduti. Il tema ‘prescrizione’ tiene banco nei dibattiti politici al punto da mettere a rischio la tenuta del governo. Ma perché è così importante?
“Non è importante: è il pretesto attraverso il quale la politica, quando è incapace di risolvere i problemi legati alle proprie fratture interne li traveste da problemi tecnici, chiedendo che a risolverli sia il diritto. E questo non è possibile, perché la fine della corsa è sempre una situazione ingestibile. Come quella attuale”.
L’ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, affronta l’argomento per Redattore Sociale ed entra a gamba tesa nella discussione che sta animando i dibattiti sui pro e i contro della riforma.
“La prescrizione – spiega il giurista - è l’istituto per il quale dopo un certo periodo di tempo, che è strettamente legato alla gravità del reato, la persona imputata o condannata non è più perseguibile penalmente: questo può accadere sia nell’ambito delle indagini preliminari che durante una delle varie fasi del processo. Ricordando sempre che per i reati più gravi, quelli puniti con l’ergastolo, non esiste prescrizione, dal primo gennaio 2020 la legge n.3/2019 ‘Spazzacorrotti’ ha introdotto un blocco dopo il processo di primo grado. Questo vuol dire che se in precedenza, in qualsiasi momento (primo grado, Appello o Cassazione), la prescrizione poteva arrivare e vanificare il processo, d’ora in poi il decorso viene sospeso dopo la sentenza di primo grado. Una soluzione ‘drastica’ variamente modificata e discussa, dopo l’entrata in vigore della ‘spazzacorrotti’, nel vano tentativo di trovare un ‘compromesso’ che salvasse capra e cavoli: che superasse cioè la frattura politica nella maggioranza con un arrangiamento tecnico”.
Dalla Relazione del primo Presidente della Corte di cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario emerge che in Europa il processo penale di primo grado dura in media 138 giorni e quello d’appello 143 giorni. Mentre in Italia la durata media del processo penale è quasi tre volte tanto in primo grado (392 giorni) e quasi sei volte tanto in appello (840 giorni). La sola Cassazione, con una durata media dei processi di 167 giorni, si allinea con gli standard europei.
Quanto il blocco della prescrizione interviene sulla durata ragionevole dei processi?
“Molto poco. Così come sull’intero sistema, visto che, secondo quanto dichiarato dallo stesso ministro ‘si applicherà al 3% dei processi’. Mi chiedo allora: valeva la pena di smuovere sacri principi, consolidati insegnamenti sul diritto penale, mettere a rischio quasi quotidianamente l’equilibrio politico e la sopravvivenza del governo, per un risultato come questo? Con una riforma che, poi, produrrà questi ‘effetti’ solo fra 3 o 4 anni?”.
Professore, come se ne esce?
“Non mi sento di prendere posizioni su una situazione che a mio parere andrebbe azzerata, per ricominciare da capo, basandosi sulla valutazione e sul fallimento dei tentativi precedenti di soluzione e ridiscutendo la tematica del processo penale in modo globale. Certo, cominciare dalla coda, anziché dalla testa, isolando il singolo problema, è più facile, più accessibile e più comprensibile dai non addetti ai lavori. Ma produce gli effetti attuali. L’esame e la riforma della prescrizione, se non si vuole creare un mito da additare, come molti altri, alla collera collettiva, vanno studiati nelle premesse, nelle condizioni di operatività, nei riflessi sugli altri profili del processo penale. E logica vorrebbe che la tanto promessa e decantata riforma del processo avvenisse prima o, almeno, contemporaneamente”.
“La soluzione da ultimo proposta in Consiglio dei ministri ed esaltata in un primo momento come quella promessa, attesa e finalmente soddisfacente, è rappresentata dalla fissazione di termini per le varie fasi del processo e le sanzioni disciplinari per i magistrati che non li rispettano per dolo o negligenza inescusabile; dal tentativo di tagliare i tempi morti, anche attraverso la promessa del reclutamento di personale giudiziario; dall’ultima modifica al decorso differente della prescrizione per la persona assolta o condannata in primo grado, con i suoi dubbi di costituzionalità; dalla potestà dei procuratori capo di indicare le priorità nella trattazione delle notizie di reato, previa intesa con i capi degli altri uffici; dalla facilitazione nell’accesso ai riti alternativi, dall’uso della notifica telematica e così via. È una soluzione che in realtà scontenta tutti ed è di dubbia realizzabilità in concreto”.
La metà, o quasi, delle prescrizioni, sempre secondo i dati presentati nelle relazioni inaugurali dell’anno giudiziario, maturano prima del processo, mentre la fase processuale più esposta, quella in cui il fenomeno ha ‘dimensioni patologiche’, è il giudizio d’appello dove il 24,2% dei procedimenti (uno ogni quattro) riguarda reati per i quali sopravviene la prescrizione. L’incidenza in Cassazione è quasi irrilevante (1,7% dei procedimenti) e poco significativa nel giudizio di primo grado (circa l’8% dei procedimenti). Anche se il dato appare molto disomogeneo sul territorio nazionale: nel distretto di Roma, ad esempio, nel 2019 la prescrizione ha interessato il 48% dei procedimenti definiti in appello (uno su due) mentre a Milano solo il 2,91% (secondo stima del Ministero riportata dai media).
In un suo recente intervento lei ha definito l’attuale riforma ‘una tempesta perfetta in un bicchiere d’acqua’. Quali azioni promuoverebbe, se potesse di nuovo intervenire come ministro?
“C’è bisogno di una riforma strutturale del sistema penale. Tra i punti in rilievo: l’obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale, il sistema delle impugnazioni e la riorganizzazione dei riti alternativi, perché altrimenti si assiste al fallimento del processo accusatorio che prevede il 10% dei casi a giudizio e il 90% definito prima, mentre oggi abbiamo esattamente il contrario. Il problema va ridiscusso completamente, vanno resi appetibili i riti alternativi, c’è bisogno di sedersi a un tavolo e ridefinire seriamente quella che è l’idea alla base dei procedimenti alternativi e del rito accusatorio”.
E poi?
“E poi bisogna depenalizzare a fondo, cosa che stiamo continuando a non fare (anzi ricorriamo al diritto penale come placebo per le paure della società ad ogni piè sospinto). E rivedere il sistema dell’ipotesi di inammissibilità di certe impugnazioni che hanno carattere esclusivamente strumentale. Il problema di fondo resta da un lato quello della necessità dell’oblio che prevale sulla memoria quando è passato un certo periodo di tempo da cui dipende la prosecuzione dell’azione penale: perché è passato troppo tempo, perché è ormai difficile trovare prove e perché la persona nel frattempo è cambiata. Dall’altro lato però, è l’esigenza di fare giustizia: quando si inizia il processo non c’è più un problema di oblio perché lo Stato si ‘è svegliato’ e mostra di voler andare fino in fondo. A questo punto la questione diventa un’altra: non tanto quella della cancellazione del reato sul piano sostanziale, ma quella della regolamentazione del processo in modo da non perdere tempo. E le perdite di tempo nel processo adesso sono tali e tante che non possono essere imputate né aprioristicamente e soltanto al giudice, né altrettanto aprioristicamente e soltanto all’avvocato. Molti tempi si perdono ad esempio nei passaggi da un ufficio all’altro, nella disorganizzazione, negli errori di notifica. Non si può generalizzare, è tutto il sistema che deve essere riesaminato. Ma è molto difficile farlo in una polemica come questa, abituata a non esaminare i problemi nel loro contenuto, ma a fare di ogni erba un fascio e a improvvisare a tamburo battente ipotesi di soluzione senza verificarne la percorribilità e le conseguenze, a fini prevalentemente di facciata o di polemica politica”.
Teresa Valiani