Philippe Daverio: un comunicatore che ci ha fatto riscoprire la bellezza di casa nostra
Senza urla e strepiti, aveva reso popolare l’arte al pubblico televisivo attraverso le sue rubriche sulle piattaforme generaliste e poi anche su quelle private. Ma non solo diffusore popolare: si era impegnato, non senza screzi e polemiche, anche in politica, ma pur sempre combattendo con le sue armi culturali
Arte come forma di comunicazione trasversale, ma soprattutto e sempre comunicazione. Per tutti. Era questa la formula – e il più grande merito – di Philippe Daverio, morto stanotte all’Istituto dei tumori di Milano (era nato a Mulhouse, in Alsazia, nel 1949, papà italiano e mamma francese).
Senza urla e strepiti, aveva reso popolare l’arte al pubblico televisivo attraverso le sue rubriche sulle piattaforme generaliste e poi anche su quelle private.
Ma non solo diffusore popolare: si era impegnato, non senza screzi e polemiche, anche in politica, ma pur sempre combattendo con le sue armi culturali, nella giunta leghista di Formentini a Milano alla fine del Novecento, o nella ricostruzione del Padiglione d’arte contemporanea dopo la bomba di via Palestro nel ’93, per poi diventare – siamo nel 2014 – direttore artistico del Museo del Duomo di Milano. Se ricordiamo le sue collaborazioni con il giornalismo allora ancora cartaceo di Panorama, Vogue, Gente e lo rammentiamo anche, agli inizi, come gallerista nella sua patria adottiva, Milano, ci rendiamo conto che Daverio è stato il rappresentante della moderna comunicazione di massa (e lo si intenda come complimento) di una data disciplina, nel suo caso l’arte (non si era mai laureato, dopo aver frequentato la Bocconi – “per studiare e non per laurearsi” -, come amava dire) più che un teorico specializzato. E la differenza non è da poco.
Lo specialista disciplinare può essere un genio nel suo campo, ma non un comunicatore capace di far capire ad un cittadino di media o bassa cultura l’importanza del discorso artistico.
Un po’ come se in una classe un professore preparatissimo non riuscisse a comunicare e a far piacere la sua materia a studenti che non riescono a seguirlo. Soprattutto con la trasmissione “Passepartout” Daverio aveva fatto capire i segreti, le curiosità, le fatiche, le delusioni, i riconoscimenti e i fallimenti che si nascondono dietro il grande azzardo dell’arte. Leonardo e Raffaello, Monet e gli impressionisti, la pittura delle origini e quella delle avanguardie sono entrate nelle case degli italiani grazie a lui, alla sua capacità di mettersi con la sua mobilità e la sua naturalezza al centro dell’attenzione senza prevaricare o distrarre troppo da quello che era il centro del discorso: l’arte e i suoi misteri.
Con i suoi capelli spesso arruffati con simpatica sprezzatura, i suoi proverbiali occhiali tondi, con i suoi vestiti stravaganti tra l’accademia e il disimpegno casual, la sua grande cultura, non solo figurativa, che gli permetteva di appoggiare le sue spiegazioni con paragoni letterari e più generalmente culturali, era divenuto lui stesso un’icona, stavolta e per fortuna positiva, nella comunicazione mediatica contemporanea.
Aveva portato l’attenzione del pubblico non solo sulle immagini di moda, ma su borghi sperduti e su chiese nascoste tra le montagne, contribuendo a quel vero e proprio movimento spontaneo, di studiosi e di gente comune, che potremmo chiamare della Riscoperta del Belpaese contro gli esotismi alla moda. È non è cosa da poco. Grazie anche solo per questo.