Paola Bignardi: “La Chiesa ha bisogno di laici ‘laici’, sostantivo e aggettivo!”
Un’intervista “libera”. Dice quello che pensa, sui laici e su un laicato che “non esiste più”, Paola Bignardi, pedagogista, già presidente dell’Azione cattolica italiana, coordinatrice dell’Osservatorio Giovani dell’istituto Giuseppe Toniolo di Studi superiori. E sottolinea: "I laici sono 'la Chiesa che è già uscita', ma che hanno bisogno di poter far giungere la loro voce là dove la Chiesa pensa se stessa e il proprio rapporto con la vita e con il mondo. Questo è il vero, grande, coraggioso contributo che i laici sono chiamati a dare oggi"
Un’intervista “libera”. Dice quello che pensa, sui laici e su un laicato che “non esiste più”, Paola Bignardi, pedagogista, già presidente dell’Azione cattolica italiana, coordinatrice dell’Osservatorio Giovani dell’istituto Giuseppe Toniolo di Studi superiori.
“Esiste ancora il laicato?”. È il titolo di un suo libro di dieci anni fa, per il 50° del Concilio. Che risposta si darebbe a questa domanda, dieci anni dopo?
Dieci anni fa il titolo del libro includeva un punto di domanda, ma era pur sempre espressione di un’esperienza di Chiesa percorsa da tensioni positive, che lasciavano supporre che il punto di domanda potesse trasformarsi in un punto esclamativo. In questi dieci anni questo non è accaduto, e sarebbe troppo lungo esaminare le ragioni per cui le cose sono andate così. Le trasformazioni della cultura diffusa e della società hanno avuto sulla coscienza dei cristiani e sulla Chiesa un impatto forte, benché non imprevedibile.
Il laicato, come l’insieme di coloro che vivono secondo lo stesso stile spirituale – il Concilio direbbe secondo la stessa vocazione – non esiste più.
Esistono laici cristiani che vivono in solitudine – che non necessariamente significa in maniera privata – la bellezza del Vangelo e condividono lo stesso stile anche con donne e uomini che testimoniano gli stessi valori, anche a prescindere dall’adesione alla fede. Ovviamente la loro è un’esperienza difficile e rischiosa, soprattutto perché è solitaria; ma questa è la realtà di oggi.
Negli ultimi anni in molte diocesi e perfino in alcuni dicasteri vaticani i laici hanno raggiunto ruoli di grande responsabilità. La trova una cosa positiva? Al tempo stesso, è sufficiente per affermare che cresce nella Chiesa il ruolo e la soggettività laicale?
È certamente positivo che ai laici siano riconosciute delle responsabilità in ambito ecclesiale, e purtroppo dobbiamo ancora meravigliarci di questo fatto che dovrebbe essere naturale. Ma alla domanda che mi è stata posta rispondo anche: dipende!
Dipende dalle “regole del gioco”. Dipende dalla possibilità che questi laici hanno di portare la loro cultura professionale ed ecclesiale, dalla possibilità o meno di contribuire realmente alla maturazione degli orientamenti ancor prima che delle decisioni.
L’impressione, in particolare alla luce del Sinodo sulla Sinodalità che è stato avviato, è che oggi non sia centrale una riflessione sul ruolo del laico tout court, ma di esso in relazione alle altre vocazioni ecclesiali. E che tutti insieme, i battezzati che costituiscono il popolo di Dio, siano protagonisti di questo cammino sinodale, che il Papa auspica “dal basso”. È così? E questo che implicazioni comporta nella formazione e valorizzazione del laicato?
Trovo importante che si ponga oggi l’accento sul popolo di Dio come soggetto della vita ecclesiale e della missione della Chiesa. Ma essere tutti protagonisti non significa essere tutti uguali. Vi è una dinamica di omologazione che da trent’anni a questa parte ha proposto un ideale di comunione ecclesiale che ha appiattito tutte le differenze, che ha spento l’innovazione, che ha escluso espressioni ecclesiali che nulla avevano di sovversivo, ma che semplicemente introducevano una differente sensibilità ed esperienza ecclesiale.
La sinodalità “dal basso” di cui parla Papa Francesco avrebbe bisogno di un preliminare: cercare tutti quei laici – e non solo loro – che in questi anni si sono allontanati dalla Chiesa perché non sono più riusciti a condividere la sua cultura rivolta solo al passato,
oppure perché non sono più stati disposti a essere trattati con quell’atteggiamento infantilizzante che nella comunità cristiana privilegia la dipendenza sull’intraprendenza. Allora sarà possibile parlare di un cammino sinodale dal basso e di un’esperienza ecclesiale all’insegna del coinvolgimento non strumentale e funzionale alle cose da fare, ma alla ricerca di un modo attuale di vivere il Vangelo. A partire dall’ascolto di queste esperienze si potrà anche avviare in modo nuovo una riflessione sul ruolo del laico; e anche le altre vocazioni potranno esserne valorizzate.
Come valorizzare la laicità ed evitare una sorta di clericalismo dei laici, al quale fa riferimento lo stesso Papa Francesco?
Il clericalismo dei laici ha un tratto caricaturale che umilia i laici e le comunità cristiane tutte, ma è un clericalismo di riflesso: è l’esito di un modo di pensare le relazioni ecclesiali tutte centrate sulla vita interna della Chiesa e sulle sue funzioni.
Ha tante cause, questo modo di vivere, ma le principali di esse sono in un esercizio dell’autorità che crea distanza e atteggiamenti di dipendenza.
E d’altra parte anche in un modo di pensare la Chiesa senza mondo, senza apertura sulla vita. Spesso il clericalismo dei laici nasconde disprezzo per il mondo e paura delle comuni dinamiche familiari, sociali, professionali. C’è un clericalismo dei laici così innaturale, che assolutizza le “cose di Chiesa”, che non riesce più a cogliere il rapporto che esiste tra la comunità cristiana e il contesto in cui è radicata, e, quando lo fa, lo fa in modo oppositivo, difensivo. E finisce con l’interpretare le difficoltà del cristianesimo di oggi attribuendone la colpa a “un mondo cattivo”, senza riuscire a fare un po’ di autocritica e di verifica.
Un altro tema è quello di una frattura tra “élite” e popolo. Andrea Riccardi nel suo ultimo libro ha fatto riferimento a un clima ecclesiale post-conciliare di “post-tridentinismo”. Viceversa il Papa insiste sul popolo “fedele”, “infallibile” nel suo esercizio di fede, come soggetto primario del cammino sinodale. Gli stessi poveri devono essere riconosciuti in pienezza nel loro essere “sacramento”. Esiste questa frattura, a suo avviso?
Più che una frattura tra élite e popolo esistono livelli diversi di coinvolgimento, di impegno nella vita cristiana, di cammini spirituali. Non so se si possa parlare di frattura tra élite e popolo, ma piuttosto di diversi modi di vivere la fede e di interpretare la propria esperienza esistenziale. Tutto rientra in quell’articolazione che dovrebbe caratterizzare la comunità cristiana. Questo è più evidente oggi, per il carattere plurale della cultura e della società di cui siamo parte. E rimanda anche questo all’idea di una Chiesa che è comunione di diversi, che è armonia di differenze.
Se la Chiesa oggi riuscisse a vivere pienamente questa dimensione così essenziale e originale della sua vita, darebbe per ciò stesso un grande contributo a una società nella quale il pluralismo si esaspera nella frammentazione e le differenze generano conflittualità.
Vi sono poi alcune condizioni esistenziali che andrebbero riconosciute nel valore simbolico e accolte e valorizzate proprio per questo dono, quasi un carisma naturale, che reca ricchezza con il solo proprio essere e andrebbe valorizzato per questo, a prescindere dal contributo concreto che esse danno alla comunità e alla sua azione pastorale. Papa Francesco parla spesso dei poveri, come un sacramento; nella Fratelli Tutti li ha definiti “poeti sociali” (n, 169). Ma io vorrei fare delle aggiunte che ritengo significative: penso alle donne, e al valore della loro presenza come custodi della vita, della cura, della passione. Oppure ai giovani, la cui esperienza reca quella novità che spinge verso il futuro la Chiesa e le impedisce di invecchiare. Penso alla famiglia, di cui da tempo si dice che è destinata a essere soggetto pastorale, in un’azione di cui si stenta a trovare non tanto i risvolti operativi, quanto i significati profondi. Naturalmente non è che la vita, la novità, l’amore siano esclusiva di queste condizioni, ma esse le rappresentano come segno per tutti, proprio come un “sacramento”.
Come coniugare questa attenzione al popolo e questo ascolto sincero con l’esigenza di una qualificata formazione laicale? Ultimamente si sente poco parlare di formazione…
Viviamo da anni in un clima da emergenza, che la pandemia ha messo in risalto in maniera particolare.
Ma la difficoltà – o, per usare la sincerità di papa Francesco, la “crisi” – della Chiesa non data da oggi. Spesso nell’emergenza si smette di progettare, di guardare lontano.
Si immagina di uscirne con un’azione che quasi sempre risulta miope. La formazione ha bisogno di sguardo lungo. La formazione costruisce in profondità e getta lo sguardo lontano. Spesso non se ne vedono i risultati nell’immediato. Per questo fa formazione chi è capace di fiducia e di responsabilità verso il futuro, e crede al valore anche di ciò che opera in modo invisibile.Eppure proprio di formazione ci sarebbe bisogno oggi, cioè di azioni, di progetti, di impegni volti a ricostruire il tessuto umano ed evangelico delle nostre comunità.
Penso al bisogno che c’è oggi di riconoscere il valore della mitezza, della compassione, della fedeltà alle relazioni, della cura per le dimensioni interiori della vita. La formazione è azione che dà valore al quotidiano, all’ordinario, quello che si vive nella ferialità; che ha il suo luogo privilegiato nella casa; quello che fa appello alla solidità della coscienza e non ha altri appoggi in iniziative, strutture, eventi…
La Chiesa ha dedicato ai giovani un Sinodo, e spesso il Papa parla delle donne nella Chiesa. Giovani e donne mi sembrano davvero due questioni centrali, e due realtà in crisi nel rapporto con la Chiesa, almeno a livello istituzionale. C’è consapevolezza di questo?
Se ci fosse consapevolezza di quanto sia cruciale la presenza delle donne e dei giovani nella comunità si sarebbe meno distratti nei confronti di ciò che gli osservatori più attenti stanno vedendo: cioè il progressivo e rapido allontanamento dalla Chiesa di queste componenti essenziali.
È un fenomeno che Papa Francesco ha decisamente registrato nella Christus Vivit (n. 40). I dati di recenti ricerche dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo dicono di questo rapido arretramento del numero di coloro che dichiarano di essere cristiani cattolici. In questo quadro, risalta la posizione delle giovani donne che nei confronti della Chiesa hanno una sfiducia superiore a quella dei loro coetanei maschi e sono più di loro arrabbiate.
Nell’attuale situazione del laicato come cambia il ruolo dell’associazionismo laicale, e dell’Ac in primis, e dei movimenti ecclesiali? In fondo, se la sinodalità riguarda tutti, la loro presenza non rischia di annacquarsi?
Il temere che la cura delle specificità abbia a disturbare il processo di crescita della comunità è una tentazione antica, che tanti danni ha già fatto alla vita della Chiesa, e di cui – se posso citare un’esperienza che ho molto cara – l’Azione Cattolica ha pagato un prezzo particolarmente alto.
La sinodalità riguarda tutti, certo, ma non è che una comunità ecclesiale per essere vivace deve mortificare le singole soggettività che sono presenti in essa. Credo che questa stagione ecclesiale abbia bisogno di intraprendenza, di vivacità;
abbia bisogno di qualcuno con l’audacia di spingersi anche in “territori” rischiosi e inesplorati. Le associazioni e i movimenti possono e devono farlo a maggior titolo. Il valore particolare delle esperienze aggregative è quello di poter sperimentare, di mettere la loro vivacità a servizio della novità: senza esibizionismi e senza presunzione, ma con autenticità e coraggio. E mentre osano, devono saper conservare l’umiltà di chi si sente parte di una Chiesa più grande e continua a sentirsi non solo a servizio di essa, ma relativo a essa.
Per il futuro più o meno prossimo immagina l’istituzione e la presenza di nuove ministerialità laicali? Di che tipo?
Non riesco a immaginare. Non so, ma non lo auspico. La missione della Chiesa nel mondo di oggi e l’autenticità stessa della Chiesa non ha bisogno di laici che smettano di essere tali per essere parte attiva di essa.
La Chiesa ha bisogno di laici “laici”, sostantivo e aggettivo!
Gente che conosca e viva con passione la professione, la famiglia, gli impegni civili e sociali. Ciò che realmente auspico è un cambio di impostazione delle comunità e della Chiesa tutta, per affrontare la vera grande sfida di oggi, che è la reinterpretazione del cristianesimo nella cultura attuale. E questo lo si fa non stando sulla soglia della sagrestia, ma stando dentro le situazioni reali della vita di tutti.
I laici sono “la Chiesa che è già uscita”, ma che hanno bisogno di poter far giungere la loro voce là dove la Chiesa pensa se stessa e il proprio rapporto con la vita e con il mondo.
Questo è il vero, grande, coraggioso contributo che i laici sono chiamati a dare oggi; ma perché questo accada, occorre da parte della Chiesa istituzionale il coraggio di ascoltarli, di mettersi con loro in un dialogo reale, e di tener conto delle loro intuizioni e sensibilità. Forse il sensus fidei percorre anche questa strada.
(*) “La vita del popolo” (Treviso)