L’uscita nei cinema dell’ennesimo “Piccole donne” riapre il problema dei rapporti tra film e scrittura
Si tratta di una - anzi, più d’una - storia di formazione che nasce dal vissuto dell’autrice, non sempre idilliaco e rosa.
Ci risiamo: le quattro Piccole donne dei romanzi (anch’essi quattro, anche se si ricordano soprattutto il primo e il secondo, che in America erano tutt’uno) di Louisa May Alcott diventano per l’ennesima volta personaggi del cinema, come accadde fin dai tempi del muto: la prima pellicola basata sul più celebre novel della saga, “Piccole donne”, appunto, risale al 1918. La nuova fatica della regista statunitense Greta Gerwig, da gennaio nelle sale italiane, riprende quindi quella narrazione iniziata nel 1868 con il sottotitolo di “Meg, Jo, Beth, and Amy”.
La storia infinita delle quattro sorelle figlie di un cappellano partito per la guerra di secessione non ha mai abbandonato l’immaginario collettivo, soprattutto quello femminile, perché dall’altro versante arrivavano spoilerate – in anticipo sui tempi – che parlavano di storia per femminucce, lieti fini e via dicendo. E questa è la dimostrazione che i libri vanno letti prima di giudicare: se è vero che si tratta di una – anzi, più d’una – storia di formazione è anche vero che questa storia nasce dal vissuto dell’autrice, non sempre idilliaco e rosa. Il padre assente per la guerra del romanzo richiamava il padre della scrittrice, pensatore della cerchia trascendentalista degli Emerson e dei Thoreau, di grande profondità e sensibilità, ma piuttosto sfortunato nella gestione dell’economia domestica.
La Alcott fece personalmente i salati conti con gli esperimenti di vita comune sotto il segno della spiritualità e della cooperazione democratica che in quegli anni furono tentati non solo negli Stati Uniti, con esisti spesso deludenti. L’utopia, agli occhi della giovane Lou, andava svelando le sue contraddizioni e i suoi rischi, e, nel contempo si faceva largo nel suo animo un senso di giustizia che andava oltre le teorie e si manifestava nei rapporti familiari. Perché nel libro, anzi, nei libri della Alcott, c’è poco di salottiero e infantile: c’è invece un lucido sguardo sui problemi reali che nascono all’interno di quelle famiglie legate a ideali trascendentali e per questo viste con sospetto, compatimento e ironia dai benpensanti. Come spesso accade, in quel tipo di famiglia la fede in qualcosa di diverso che non sia il benessere e il perbenismo si scontra con la lotta di tutti i giorni per la sopravvivenza, soprattutto quando la povertà, più o meno travestita, viene a bussare alla porta di casa.
E’ sorprendente l’analogia della scrittrice americana (che aveva edito anche altri romanzi, tra cui, sotto pseudonimo, racconti “gotici”) con una autrice di lingua inglese ma nata in Australia, Helen Lyndon Goff, meglio nota come Pamela Lyndon Travers, creatrice di un’altra figura dalla lunga vita, Mary Poppins. Stessa figura paterna fuori dagli schemi, assente ma ossessiva nella realtà di ambedue le donne, stessa capacità di trasporre con forza e anche profondità la durezza della vita nelle proprie narrazioni, stesso successo nel cinema, anche se la Travers ebbe moltissimo da ridire sul film della Disney. Ma, come si sa, il film è una cosa e il libro un’altra. Possono essere simili ma anche assai, troppo, diversi.
“Il Gattopardo” di Visconti ha sbancato soprattutto grazie alla scena finale del ballo, ma non ha privilegiato la parte più affascinante del romanzo di Tomasi di Lampedusa, quella dell’apparizione della straniera sul letto di morte del protagonista. Ed è nota l’insoddisfazione dello scrittore Giorgio Bassani di fronte alla trasposizione del film di Vittorio De Sica tratto dal suo celebre “Il giardino dei Finzi-Contini”. Soprattutto perché è difficile restituire la sostanza profonda e anche spirituale di percorsi umani che la scrittura era riuscita a creare nel libro.