“I due papi” di Fernando Meirelles: racconto tra verità e finzione dell’amicizia tra Benedetto XVI e Francesco
Il film non è al di sopra di sbavature o inciampi, soprattutto sotto il profilo della ricostruzione storica. Ma a ben vedere, non è questo che importa all’autore, che è più proteso nel consegnarci un’inedita, onirica, prospettiva di legame tra due grandi uomini di Chiesa; la prospettiva dell’amicizia che affiora e man mano si fortifica nel lavoro di messa in sicurezza della barca di Pietro
Nella notte tra 5 e 6 gennaio 2020 a Los Angeles si terranno i premi Golden Globe, importanti riconoscimenti per il mondo del cinema e della televisione secondo i giornalisti stranieri accreditati alla Hollywood Foreign Press Association. È la cosiddetta anticamera dei premi Oscar, che si disputeranno il prossimo 9 febbraio. A concorrere con quattro candidature pesanti – miglior film drammatico, migliori interpreti Jonathan Pryce e Anthony Hopkins, nonché miglior sceneggiatura firmata da Anthony McCarten – è il film “I due papi” (“The Two Popes”) di Fernando Meirelles, racconto giocato tra verità e finzione sull’amicizia tra papa Benedetto XVI e l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio, a poche settimane dalla rinuncia del primo al soglio di Pietro e all’ascesa del secondo con il nome Francesco. Un film molto atteso, discusso, apprezzato e commentato, che è stato presentato inizialmente ai festival di Telluride e Toronto, per arrivare poi dal 20 dicembre direttamente sulla piattaforma del colosso streaming Netflix. Ecco il punto della Commissione nazionale valutazione film della Cei e del Sir.
Un dialogo onirico su Chiesa, fede e vita. C’è chi lo ha definito una lunga confessione, chi il brillante e problematico ritratto di due grandi uomini… Vero, è un po’ questo ma anche altro “I due papi” di Meirelles. Non è la verità dei fatti, il racconto del legame tra i due pontefici, Francesco e il papa emerito Benedetto, ma è una storia di finzione che si ispira a fatti veri, che valorizza anche immagini di repertorio sui due papi per imprimere autenticità al racconto.
Il film si prende la licenza poetica di raccontare la nascita di un’amicizia tra due grandi uomini di Chiesa sul crinale del cambiamento, a poche settimane dallo storico annuncio di papa Ratzinger di lasciare la Sede Apostolica per ritirarsi a vita privata.
In quel periodo di meditazione da parte del pontefice tedesco, il film ci propone un incontro, prima a Castel Gandolfo e poi nel cuore del Vaticano, nella Cappella Sistina, tra Benedetto XVI e il cardinale Bergoglio, giunto da Buenos Aires per rassegnare le sue dimissioni al Santo Padre, con il desiderio di tornare a fare il semplice curato tra la gente. Il film è tutto lì, in quel fitto dialogo, in quella lunga confessione, che assume i tratti di un sogno, quasi di una visione onirica felliniana, dove si sovrappongono frammenti di vita dei due uomini con i sentimenti di apprensione per la Chiesa avvampata dagli scandali (in primis Vatileaks e la piaga degli abusi).
Il punto Cnvf-Sir. Perno narrativo ed emozionale del film è l’evoluzione del rapporto tra due sacerdoti, tra il pontefice in carica Benedetto e il cardinale venuto “quasi dalla fine del mondo” Bergoglio. All’inizio del film c’è osservazione, studio, persino tracce di ritrosia e diffidenza, per il modo “altro” di guardare alla vita e al ruolo della Chiesa. Se Ratzinger (Anthony Hopkins) appare in un primo momento più sulle difensive, rimarcando la sua indole tedesca e la sua timida riservatezza, Bergoglio (Jonathan Pryce, di impressionante somiglianza) alterna rispettosa cautela con lanci di genuina tenerezza. Parola dopo parola, gesto dopo gesto, i due uomini di Chiesa diventano prossimi, si confrontano su tutto, si confidano, aprono persino degli squarci sulla loro memoria personale (soprattutto Bergoglio, che racconta la stagione della sua vocazione, della formazione come gesuita e i dolorosi, tormentati, anni sotto la dittatura), per poi abbandonarsi alle preoccupazioni nei confronti della Chiesa, vista come una barca in tempesta in balia di corruzione, carrierismo e deragliamenti criminosi.
Il film “I due papi” non si preoccupa di scandagliare con attenzione i fatti, i tratti veri della storia (forse questo è un punto debole del racconto), ma si concentra unicamente su quel singolare incontro tra due uomini differenti, per educazione, formazione, appartenenza geografica, seppure vicini dalla scelta di abitare la Chiesa, di vivere nella fede.
Due uomini così assorti dal pensiero di salvare e riformare la Chiesa da trovare un punto di dialogo, di intesa, scoprendo in fondo di non essere poi così diversi, distanti. E sono così i punti di prossimità quotidiana che colpiscono di più nell’opera, in termini di tenerezza e poesia, come quella pizza rossa con aranciata gassata gustate in una stanzetta a due passi dalla Sistina oppure il vedere insieme la partita di calcio tra Argentina e Germania.
La regia di Fernando Meirelles (suoi sono “City of God” e “The Constant Gardener”) e la scrittura di Anthony McCarten (autore dei copioni di “La teoria del tutto” e “L’ora più buia”) sono compatte e ben bilanciate, perfettamente amalgamate. Ma è soprattutto l’interpretazione dei due attori Jonathan Pryce e Anthony Hopkins a dare corpo, spessore, al film. “I due papi” sono loro! Due attori in grado di esplorare la vita dei due pontefici attraverso sguardi, gesti, parole, tutti così prossimi al vero da lasciare ipnotizzati.
Nel complesso il film non è al di sopra di sbavature o inciampi, soprattutto sotto il profilo della ricostruzione storica. Ma a ben vedere, non è questo che importa all’autore, che è più proteso nel consegnarci un’inedita, onirica, prospettiva di legame tra due grandi uomini di Chiesa; la prospettiva dell’amicizia che affiora e man mano si fortifica nel lavoro di messa in sicurezza della barca di Pietro.
Dal punto di vista pastorale, il film è consigliabile, problematico e senza dubbio adatto per dibattiti.