«Fratello marocchino, chiediamo perdono»
Da una lettera di Tonino Bello scritta negli anni Ottanta, un grido d’accusa quantomai attuale
Siamo ritornati ai tempi bui dell’immigrazione, a quelli della prima ora. Indietro come i gamberi, come se più di quarant’anni, da quando l’Italia è diventata anche Paese di immigrazione, fossero passati invano.
Non conta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, non contano le leggi internazionali, non conta il Vangelo. Forse fa ancora breccia un po’ di umanità, che si risveglia al pianto disperato dei bambini immigrati sottratti ai genitori.
A questa umanità faceva appello mons. Tonino Bello, vescovo di Molfetta, in una lettera degli anni Ottanta, che qui in parte ripropongo.
«Fratello marocchino, perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell’Eritrea, dell’Etiopia o di Capo Verde. Dimmi, marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un’anima pure tu? Qualche volta versi anche tu lacrime amare?
È viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano? Scrivi anche tu lettere d’amore? Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili.
Perdonaci, fratello marocchino, se, pur appartenendo a un popolo che ha sperimentato l’amarezza dell’emigrazione, non abbiamo usato misericordia verso di te. Anzi ripetiamo su di te, con le rivalse di una squallida nemesi storica, le violenze che hanno umiliato e offeso i nostri padri in terra straniera.
Perdonaci, se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori. Ci manca ancora l’audacia di gridare che le norme vigenti in Italia, a proposito di clandestini come te, hanno sapore poliziesco, non tutelano i più elementari diritti umani, e sono indegne di un popolo libero come il nostro».