Economia e Vangelo. Nella prova, il tempo della fede
Come Abramo, anche le nostre comunità cristiane dovranno salire il loro monte Mòria per sacrificare alcune delle cose che hanno tanto amato
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!» Rispose: «Eccomi».
Nel tempo della prova, farsi trovare pronti e rispondere «Eccomi» è difficile. Ne abbiamo fatto esperienza con questa pandemia che ci ha trovato tutti impreparati di fronte a un evento così doloroso.
Il libro della Genesi, con il racconto del sacrificio di Isacco, intende prendere per mano tutti noi proprio quando facciamo fatica a dire il nostro «Eccomi» e non siamo pronti ad affrontare una sofferenza che improvvisamente ci ha portato sull’orlo di un abisso di dolore. Lo fa raccontandoci la più grande tragedia che possa capitare a una persona: la morte di un figlio. Anzi, come se non bastasse, l’autore rende tutto più angoscioso, presentando la morte di un figlio provocata dal suo papà. Non esiste nulla di più drammatico.
«Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Siamo davanti a un racconto che toglie il fiato. Chi l’ha scritto voleva mostrarci l’unica via di salvezza quando il dolore infuria: la fede. Quella di Abramo lo aiuta a percorrere un cammino impossibile, senza mai smettere di sperare contro ogni speranza, non sapendo che alla fine avrebbe incontrato un angelo e scampato il pericolo. Come Abramo, anche le nostre comunità cristiane, dovranno salire il loro monte Mòria persacrificare alcune delle cose che hanno tanto amato. Sarà necessario fare insieme la fatica di un discernimento comunitario per comprendere quello a cui non vogliamo rinunciare perché ci sta particolarmente a cuore e lasciare andare il resto che appesantisce il cammino da compiere. I miei genitori, quando i loro quattro figli sono diventati grandi, con saggezza hanno scelto di abitare una casa più piccola. Non è stato facile lasciare la vecchia dimora alla quale erano legati tanti affetti; non sono mancate le esitazioni e gli indugi, ma alla fine hanno diminuito gli spazi, ridotto le manutenzioni, tagliato le spese e adattato le strutture ai loro bisogni attuali.
Questa è una fatica che anche le nostre parrocchie devono fare: non vale la pena sprecare troppe energie nel mantenere l’esistente anche quando ogni evidenza ne dimostra l’insostenibilità. Dobbiamo imparare a rinunciare a qualche iniziativa alla quale eravamo tanto affezionati e ridimensionare le nostre attività dove è necessario.
Dovremo ridurre le attuali strutture o fare lo sforzo di ripensarle in un’ottica diversa per adeguarle ai nuovi bisogni delle nostre comunità. Nei vari incontri che vivo in giro per la Diocesi, trovo spesso una vitalità che mi sorprende; tuttavia, quando si arriva a parlare della necessità di alienare degli immobili o di ridimensionare alcune attività, percepisco spesso un improvviso cambio d’umore e un clima di resistenza: una sorta di malessere che qualcuno esprime accusandomi di disfattismo o di poca fiducia nella Provvidenza. All’inizio ne soffrivo e mettevo in discussione non solo me stesso, ma la modalità di presentare l’argomento e l’opportunità di parlarne in pubblico. Con il passare del tempo ho imparato a comprendere quei mal di pancia e lascio volentieri lo spazio necessario perché qualche amarezza possa esternarsi. Dobbiamo renderci conto che la fatica sarà inevitabile, ma possiamo affrontarla soltanto rimanendo insieme: solo così ci aiuteremo a viverla come una nuova chiamata, che è sempre esperienza autentica di fiducia e di Provvidenza. Ci fa bene lasciare un po’ di spazio alla tenerezza dei ricordi, quel tanto che basta per alimentare la nostra riconoscenza per quanto abbiamo vissuto nel passato, senza tuttavia indugiare in sterili nostalgie e inutili rimpianti. Quando la strada da percorre diventa impegnativa e presenta le salite più difficili, è allora che inizia il tempo della fede in Dio Padre, ma anche il tempo della solidarietà tra i figli, che potranno permettersi di lasciare perdere qualche iniziativa, ma senza rinunciare alla fraternità.
L’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo…».
Alla chiamata Abramo risponde. Ma forse quell’«Eccomi» non significa «sono pronto». Quando sono stato ordinato prete tanti anni fa, anch’io ho detto «Eccomi», ma non ero pronto a vivere il ministero allora, così come non lo sono oggi. Questa nostra radicale inadeguatezza alla chiamata di Dio ci educa un po’ alla volta a comprendere che proprio la nostra povertà diventa quello spazio libero che la grazia del Signore può occupare. Se lo invochiamo, Dio si accomoda nella nostra miseria. Abramo insegna solo questo: non fare tutto, ma solo la nostra parte, perseverare nel cammino mantenendo sempre viva la fiducia nel Padre e ricordandoci che l’angelo arriva, se arriva, soltanto alla fine della lunga ascesa al monte. Solo allora sarà possibile che un figlio ci venga ridonato. Solo allora capiremo che ci sarà una discendenza anche per noi e la Chiesa scorgerà i segni di un futuro che nemmeno osava sperare. Solo allora sapremo interpretare che quella salita così faticosa ci stava portando non in cima a una montagna qualsiasi, ma sopra un monte santo dove anche il più grande dolore può diventare un abbraccio di benedizione.
…ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo…
Proprio quando Abramo entra nell’abisso del suo dolore e sembra sprofondare nella tenebra, Dio gli dice di alzare la testa per guardare le stelle, di contarle tutte per riempirsi gli occhi della loro luce. Abramo può comprendere che la sua angoscia non è la fine, ma un nuovo inizio e proprio quel luogo così spaventoso è diventato benedizione, perché finalmente «il Signore si fa vedere». Anche noi, come Chiesa, spesso ripiegati sui crinali depressivi della lamentela, possiamo rialzare la testa per guardare la luce delle stelle e smettere la triste contabilità delle cose che non vanno, per imparare a sollevare il nostro sguardo verso le stelle e comprendere che esiste anche un’altra contabilità, quella del Padre, che ci vuole bene, e nella sua misericordia sa trasformare anche i più grandi fallimenti in novità di vita.
don Gabriele Pipinato
vicario episcopale per i beni temporali della Chiesa di Padova
Il brano
Dal libro della Genesi (22,1-16)
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» […] Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo «Il Signore vede»; perciò oggi si dice: «Sul monte il Signore si fa vedere». L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare…»
Le imprese del patriarca di Luigino Bruni
Sulle vicende del patriarca Abramo nel 2015 l’economista Luigino Bruni ha scritto il testo Le imprese del patriarca. Mercato, denaro e relazioni umane nel libro della Genesi, pubblicato allora dalle Edizioni Dehoniane di Bologna (pagg. 192).