Covid e disabilità: questo non è un pianeta per fragili

In ogni parte del mondo la pandemia ha messo in evidenza nel corso del 2020 l’incapacità di proteggere la vita, la salute e i diritti delle persone con disabilità durante il Covid. I risultati di uno studio internazionale e il commento di alcune associazioni italiane

Covid e disabilità: questo non è un pianeta per fragili

Cosa ci ha insegnato la pandemia? Che il mondo non era pronto ad affrontare un contagio globale. E che non è stato in grado di proteggere le categorie più deboli della popolazione, tra cui soprattutto le persone disabili e anziane. Fin qui nulla di nuovo, se non fosse che quest’assunto è stato confermato da un rapporto pubblicato da poco. Basato su 134 Paesi, soprattutto europei, dell’Africa orientale e del Nord America, ha coinvolto oltre duemila persone (compresi familiari e operatori) con le relative testimonianze. Si tratta di “Disability rights during the pandemic”, uno studio redatto da sette organizzazioni internazionali, tra cui anche il Centre for human rights at the University of Pretoria, che ha rilevato come tutti i sistemi di protezione sociale siano andati in corto circuito indipendentemente dal livello di sviluppo economico del Paese e indipendentemente dal tipo di disabilità. In particolare, il rapporto ha evidenziato misure anti-Covid inadeguate soprattutto negli istituti, minore accesso all’assistenza sanitaria, è saltato il supporto della comunità di appartenenza e si è registrato un maggiore impatto del virus su alcuni gruppi di persone con disabilità più fragili, come i bambini, le donne e i senza fissa dimora. Ciò nonostante, sono emerse anche alcune buone prassi di inclusione in risposta all’emergenza sanitaria, spesso adottate dalle organizzazioni di persone con disabilità per colmare le lacune dello Stato.

In India, «alcune informazioni sono state pubblicate sui portali governativi, senza considerare che la maggior parte delle persone disabili non ha accesso a Internet»

Analizzando più nello specifico i dati raccolti, nel 33% dei casi i governi non hanno adottato nessun tipo di misura per proteggere la vita, la salute e la sicurezza delle persone disabili che vivono in struttura. Per il resto, gli unici accorgimenti presi sono stati il divieto per gli ospiti di lasciare il proprio centro residenziale e la sospensione delle visite di parenti e amici, con un conseguente senso di isolamento e di abbandono e con il venire meno dei controlli. Il 26% degli intervistati, poi, ha riferito di non aver ricevuto informazioni né sulla pandemia né sulle misure emergenziali adottate. Tra gli esempi positivi, invece, si segnalano la distribuzione di dispositivi di sicurezza individuali e la sanificazione delle strutture residenziali realizzate in moltissimi Paesi.

Ma per quasi la metà delle risposte fornite, a causa del lockdown e del coprifuoco è mancato anche il supporto della comunità di riferimento: dall’assistenza personale, domiciliare e informale a quella finanziaria, dall’approvvigionamento del cibo alle tecnologie assistive, con effetti preoccupanti sulla salute e sulla tenuta mentale delle persone con disabilità. Solo il 28,5% ha ricevuto una qualche forma di aiuto economico da parte del governo. Un po’ di sollievo è arrivato da telefono e videochiamate, dalle iniziative di teleassistenza, dai materiali esplicativi tradotti in linguaggio facile da leggere e in lingua dei segni.

In Malawi, «gli alunni sordi e con problemi cognitivi non hanno potuto seguire i programmi scolastici trasmessi per radio»

A soffrire maggiormente i disagi della pandemia sono stati i bambini disabili e le loro famiglie, esclusi per la quasi totalità dall’istruzione a distanza online e da altri servizi essenziali, le donne con disabilità, a rischio soprattutto di abusi sessuali e violenza domestica, i senza fissa dimora e le persone disabili che vivono nelle più remote zone rurali dei Paesi in via di sviluppo. Male anche sul versante sanità. Il 37% degli intervistati è stato privato del trattamento per covid-19, subendo una discriminazione durante il triage, molti si sono lamentati del fatto che chi vive in istituto non ha ricevuto un trattamento medico adeguato e, in alcuni casi, gli ospedali si sono rifiutati di curare le persone con disabilità. La metà ha detto di non avere potuto accedere alle terapie, un ulteriore 43% ha affermato di non avere avuto accesso alla riabilitazione e il 30% di non avere avuto accesso ai farmaci durante la pandemia, compresi quelli salvavita e per il trattamento delle disabilità psicosociali. Queste voci, venute fuori così prepotentemente nel sondaggio e così tanto ignorate dai governi di tutto il mondo, nonché le migliaia di morti prevenibili, sono l’altra faccia del sistema.

In Sudafrica, «chi necessita di assistenza medica periodica non riesce a vedere il proprio specialista perché gli ospedali non consentono l’accesso agli esterni»

Non sono morbidi nemmeno i commenti delle associazioni italiane a tutela della disabilità. «Con il virus il sistema non ha retto. La pandemia ha evidenziato criticità che erano già tali a livello mondiale. Bisogna abbandonare il welfare di protezione e passare a un welfare di comunità, di prossimità, di appartenenza e a una sanità territoriale, che riconosca i diritti individuali delle persone disabili e li metta al centro». Ne è convinto Vincenzo Falabella, presidente della Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap). «L’ingessatura di servizi standardizzati e le strutture segreganti si sono dimostrati un fallimento. Sono saltati perfino i percorsi di inclusione lavorativa. 
Non eravamo pronti a gestire una pandemia e non lo siamo ancora, dalla compressione dell’assistenza al venire meno dei servizi a domicilio, tamponi compresi. L’unica rete che ha funzionato è stata quella fatta da associazioni, Terzo settore, volontariato: tutto un comparto che si è rimboccato le maniche. Anche la scuola a distanza non ha funzionato: è stata invocata l’inclusione in presenza, ma l’unica strada percorribile, in caso di lockdown totale, è la didattica domiciliare. Durante la prima ondata abbiamo pensato a tutelare la salute; oggi invece bisogna tutelare anche la coesione sociale e la tenuta economica del Paese. Ma siamo stanchi del contenimento: siamo passati dal cantare sui balconi alle proteste in piazza».

Oltre al giudizio, però, la Fish si è fatta portatrice anche di alcune proposte. Sono quelle contenute nel documento Progettiamo il rilancio, presentato a giugno insieme alla Fand durante gli Stati generali dell’economia.
Si tratta di una sostanziale riforma dell’attuale sistema di welfare, che deve essere profondamente modificato in favore di processi di deistituzionalizzazione con sostegno alla vita autonoma, indipendente e alla domiciliarità, di un’adeguata allocazione di risorse con previsione di indicatori di efficacia e di impatto dei vari interventi sulla vita concreta delle persone con disabilità beneficiarie, della rivisitazione e dell’aggiornamento dei Lea (Livelli essenziali di assistenza sanitari) e della definizione e dell’adozione dei Lep (Livelli essenziali di prestazione) sociali.

In Italia, «molti anziani non hanno avuto spiegazioni, si sono sentiti abbandonati e si sono lasciati morire»

Nella regione d’Italia più colpita dal virus, la Lombardia, anche la Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità) di Milano punta il dito. «La seconda ondata era largamente prevedibile», dice il suo presidente Enrico Mantegazza. «Ora che servirebbe, dov’è finito il progetto “Dama” per le persone disabili ricoverate in ospedale? Dove sono finite le Unità speciali di continuità assistenziale a domicilio per i pazienti covid? Il decadimento della territorialità sanitaria è gravemente sbagliato, così come il depotenziamento della sanità pubblica. Quando le terapie intensive erano piene, è stato subito chiaro chi bisognava sacrificare: le zavorre sociali. Abbiamo assistito a una sorta di primo neonazismo del Terzo millennio. Gli scarti sono stati trattati ancora più come tali. Oggi, pertanto, non vorremmo più essere isolati o chiusi in un centro residenziale, ma tentare di rimanere il più possibile a casa nostra con tutta l’assistenza necessaria, con progetti individualizzati, con più sanità territoriale anche di prevenzione. Questo dovrebbe essere il nostro futuro. Si doveva partire da qui l’estate scorsa per non ripiombare dove siamo ora. Le risorse del Mes potevano servire anche a questo. Abbiamo il dovere morale e sociale di sviluppare alternative concrete, perché un domani saremo tutti anziani e probabilmente poco autosufficienti».

(L'inchiesta è tratta dal numero di dicembre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

Michela Trigari

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)