Comunicazione. Mons. Viganò: “Essere connessi non significa ancora essere comunità”
Il vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e delle Scienze Sociali ha pubblicato, per le Edizioni Dehoniane Bologna, il volume dal titolo "L'illusione di un mondo interconnesso": "Non dobbiamo passare sotto silenzio la consapevolezza che la manipolazione del sapere, che avviene in Rete attraverso algoritmi, dissimula la mediazione, favorendo e alimentando continuamente l’idea del contatto diretto"
Un intervento di Papa Francesco all’Accademia della Vita, la consapevolezza che non basta la semplice educazione all’uso corretto delle nuove tecnologie (esse non sono infatti strumenti neutrali, poiché plasmano il mondo e impegnano le coscienze sul piano dei valori). Muove da qui “L’illusione di un mondo interconnesso. Relazioni sociali e nuove tecnologie” di mons. Dario Edoardo Viganò, vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e delle Scienze Sociali, per le Edizioni Dehoniane Bologna.
Dal libro emerge che i discorsi del pontefice esprimono la consapevolezza che i media non sono neutri e che il giudizio su di essi non dipende esclusivamente dall’uso che se ne fa; la loro stessa presenza nello scenario delle relazioni sociali modifica atteggiamenti, comportamenti, visioni e scelte. Con un riferimento all’enciclica Fratelli tutti, che richiama questi temi.
Perché un mondo interconnesso viene considerato una “illusione”?
Non c’è dubbio che la globalizzazione abbia rimpicciolito il mondo e permesso una crescita esponenziale agli scambi culturali. La condivisione che i social rapidamente agevolano costruendo una percezione di prossimità può essere tanto solidale quanto cinica. Infatti i social sono il regno dell’illusione e della bulimia informativa in Rete, che solo un loro uso ragionato e razionale può trasformare in reali possibilità. Come ci ricorda J.D. Bolter, «la nostra cultura mediale è straordinariamente ricca e, nella sua plenitudine, del tutto acritica. Contiene un’infinità di spazzatura, ma anche una gran mole di cose interessanti».
Non dobbiamo dunque passare sotto silenzio la consapevolezza che la manipolazione del sapere, che avviene in Rete attraverso algoritmi, dissimula la mediazione favorendo e alimentando continuamente l’idea del contatto diretto. In questo senso si può parlare di un mondo fatto di illusioni.
Se per anni abbiamo affermato, come Chiesa, che il giudizio sui media dipendeva dall’uso che di essi se ne faceva, oggi, come ricorda la Turkle, «gli studi dimostrano che la semplice presenza di un telefono sul tavolo (anche un telefono spento) muta qualitativamente l’argomento di cui le persone stanno parlando. Se pensiamo di poter essere interrotti in qualsiasi momento, tendiamo a mantenere la conversazione su argomenti banali o su tematiche che non suscitano polemiche né hanno particolare rilievo. Queste conversazioni con i telefoni sullo sfondo bloccano ogni legame empatico. […] Perfino un telefono silenzioso riesce a separarci».
Pertanto, è necessario tornare a scoprire il fascino e la forza del dialogo, della comunicazione tra persone che sanno anzitutto ascoltare, fare spazio all’altro, disporsi all’accoglienza. Papa Francesco ricorda che «il mettersi seduti ad ascoltare l’altro, caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia. Tuttavia, “il mondo di oggi è in maggioranza un mondo sordo […]. A volte la velocità del mondo moderno, la frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle mentre ancora non ha finito di parlare. Non bisogna perdere la capacità di ascolto”. San Francesco d’Assisi «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita. Spero che il seme di San Francesco cresca in tanti cuori”».
Nel testo evidenzia come ci stiamo allontanando dal ritmo del dialogo umano, sotto scacco degli automatismi tecnologici. Quali sono le conseguenze?
Nell’attuale cultura digitale sta avvenendo una sorta di capovolgimento rispetto a un passato neppure troppo lontano: mentre alcuni decenni fa l’atteggiamento che guidava i nostri comportamenti era la discrezione e la riservatezza, e il timore di essere osservati diveniva una sorta di incubo, oggi facciamo di tutto per essere guardati, osservati, perché temiamo di essere abbandonati, ignorati, negati, esclusi. Basti pensare alla logica e alle dinamiche che presiedono la costruzione dei profili degli influencer.
Lo ricorda molto bene Papa Francesco nella sua Enciclica Fratelli tutti quando afferma che «mentre crescono atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto agli altri, si riducono o spariscono le distanze fino al punto che viene meno il diritto all’intimità. Tutto diventa una specie di spettacolo che può essere spiato, vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante. Nella comunicazione digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa oggetto di sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima. Il rispetto verso l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso tempo in cui lo sposto, lo ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore posso invadere la sua vita fino all’estremo».
È chiaro, dunque, che essere connessi non significa ancora essere comunità.
Siamo pertanto tutti chiamati a riappropriarci della relazionalità personale in presenza, perché «la conversazione diretta, faccia a faccia, – ricorda la Turkle – porta ad una maggiore autostima e migliora la capacità di trattare con gli altri. Ancora una volta, la conversazione è la cura».
Inoltre, non va dimenticato come ricorda il Papa, che «il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale». Oggi Lipovetsky ricorda che «più il capitalismo diventa “immateriale” e più si confonde con il capitalismo incantatore. Il che significa che il capitalismo immateriale non designa soltanto un “capitalismo cognitivo” centrato sugli algoritmi, i dati digitali, i saperi astratti e matematizzati, ma anche un sistema che si adopera per stimolare i desideri, le emozioni, i sogni e il cui obiettivo è creare e rinnovare prodotti e servizi che piacciano al consumatore e li colpiscano (racconti, musiche, svaghi, divertimenti, stili, ecc.). Di conseguenza, il capitalismo immateriale è anche, paradossalmente, un capitalismo artistico ed emotivo». Senza cedere ad una sorta di visione apocalittica, non dobbiamo però essere ingenui: i muovi modelli di business sfruttano l’esperienza umana sotto forma di dati, ovvero come come materia prima per pratiche commerciali. Dunque si tratta di un movimento di potere, ricorda la Zuboff, «che impone il proprio dominio sulla società sfidando la democrazia e mettendo a rischio la nostra stessa libertà».
Come la pandemia ha cambiato la comunicazione?
Basterebbe ricordare le parole della semiologa Isabella Pezzini quando nel 2020 scriveva: “Il corpo in situazione parla tanto quanto l’intelletto: lo spazio è il luogo di questo discorso e struttura la sua grammatica, mentre la messa a distanza impatta sulla comunicazione e sulla mutua comprensione. La prossimità è il luogo della comunicazione delle conoscenze tacite, intersoggettive e non codificate. Stare insieme e a stretto contatto può produrre effetti di clan e di solidarietà, generare anche innovazione”.
Ecco, dunque, come è cambiata la comunicazione: è divenuta fredda privandosi della manifestazione degli elementi non verbali che orientano anche la percezione del senso della comunicazione verbale propriamente detta.
Infatti, la dimensione sociale è costituita anche da uno scambio di elementi corporei come l’odore e il contatto fisico che una comunicazione mediale o, come si dice “a distanza” non possono offrire. Questo è stato evidente in quella che ormai viene definita “Dad”, ovvero la didattica a distanza. In questo caso dobbiamo ricordare come l’insegnamento non è solo una questione cognitiva, ma anche di contatto e di contagio – intellettuale e emozionale – reciproco. Attraverso questa dimensione di scambio di umori, da cui derivano anche l’umorismo e l’allegria, si generano i “corpi sociali”: la classe, la squadra, il team, ecc., come pure il movimento, il partito, la Nazione. Ecco perché, come dice Papa Francesco, è necessario «trovare il linguaggio giusto…. Il contatto è il vero linguaggio comunicativo, lo stesso linguaggio affettivo che ha trasmesso al lebbroso la guarigione. Quante guarigioni possiamo compiere e trasmettere imparando questo linguaggio del contatto!».
Perché, a suo avviso, ci siamo ridotti ossessionati dai social?
Siamo ossessionati oggi dai social quanto ieri dalla Tv. I social oggi ci gratificano perché, idealmente almeno, pensiamo di poter essere interlocutori del mondo intero, immaginiamo di avere accesso alle personalità più importanti e ai circoli più esclusivi. Se però non ci facciamo anestetizzare dalla gratificazione, scopriamo anche la forte carica illusoria del mondo dei social.
Umberto Eco, nel 2015, in occasione della laurea honoris causa che l’Università di Torino gli ha conferito, disse che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Naturalmente il sarcasmo di tale affermazione, peraltro già espressa in altre occasioni, non ci autorizza a fare del semiologo Eco un anziano nostalgico e meno ancora un ingenuo contro il mondo neo-mediale. Al di là del sarcasmo la forza di quella che è divenuta un mantra, sta ad indicare come il Web abbia scoperto gli imbecilli ma non li ha creati.
Infatti il Web ha dato agli imbecilli un pubblico identico a quello che è il pubblico a cui solitamente si rivolgono i Premi Nobel. Del resto, sono i media che funzionano così. E’ sempre lo stesso Umberto Eco, infatti, a ricordare come, prima dei social, proprio la Tv avesse promosso la figura dello “scemo del villaggio” consolando lo spettatore che in cuor suo pensava: beh se uno come Mike Buongiorno può condurre un quiz, allora – è il pensiero dello spettatore medio -io sono un genio! Si tratta, in sostanza, di un processo di gratificazione che i media coltivano. E la differenza tra ieri e oggi è che ieri gli imbecilli non potevano danneggiare la società o, meglio, avevano meno forza nel farlo perché i giornalisti e gli editori rappresentavano una forte cortina di sorveglianza. Oggi questo non è più così.
Quale visione scaturisce rispetto alla comunicazione dall’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco?
Il Papa nella Lettera enciclica Fratelli tutti invita tutti e ciascuno di noi a esercitarci «a smascherare le varie modalità di manipolazione, deformazione e occultamento della verità negli ambiti pubblici e privati. Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare oltre le convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che erano verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano». Si ribadisce dunque la forza e la necessità di una intelligenza onesta e libera da padroni, che sappia distinguere nella plenitudine della cultura mediale, per usare le parole di Bolter, cosa sia spazzatura e cosa invece siano le cose interessanti.
In altre parole, essere connessi non significa essere necessariamente e maggiormente performanti. Anzi!
L’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco ci offre una riflessione e un insegnamento a partire dalla consapevolezza che la Storia «sta dando segni di un ritorno all’indietro» e che ora serve un plus di intelligenza e coraggio perché «abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune».