Che lingua parli? I segreti del linguaggio giovanile
Nella loro multiforme dimensione esistenziale i nostri giovani comunicano attraverso un linguaggio proprio, quasi tribale.
E se Maometto non “parla con la” montagna, la montagna potrà tentare “di parlare con” Maometto. Quindi, approfittando del tempo estivo, suggeriamo ai più volenterosi fra genitori e insegnanti di munirsi di carta e penna per sperimentare un primo approccio col mirabolante mondo (parallelo) del linguaggio (per meglio dire slang) giovanile.
Dopo gli innumerevoli articoli di biasimo scritti a ridosso delle deludenti performance dei nostri studenti alle prese con le prove Invalsi, sarà bene “correggere un po’ il tiro” e addentrarsi in un’analisi socio-antropologica di maggior respiro circa le capacità e le modalità comunicative del mondo dei teenager. Perché raccontarle attraverso la misurazione dei test nazionali risulta comunque riduttivo per descrivere l’universo che essi rappresentano.
Nella loro multiforme dimensione esistenziale i nostri giovani comunicano eccome e sanno anche farsi capire, ma attraverso un linguaggio proprio, autoreferenziale o, per meglio dire, tribale. Ne sanno qualcosa coloro che con i ragazzi hanno a che fare quotidianamente, sfogliandone magari diari o quaderni, oppure avendo l’occasione di ascoltarli mentre parlano. Ancora più interessante sarebbe poter dare un’occhiatina ai loro cellulari, magari alle chat, dove oltre alle odiose (per noi vegliardi e cultori oldstyle della lingua italiana) abbreviazioni o agli acronimi, troveremmo neologismi di caratura interessante, generati dall’innnesto fra l’esigenza di una comunicazione immediata e a breve gittata e una pratica quotidiana sempre più vincolata alla tecnologia. Una sorta di tecnoslang, quindi, dove l’inglese si fonde con l’italiano e dà origine a un idioma ibrido e scoppiettante.
Non è facile raccontare questa lingua: essa è infatti assai mutevole e permeabile a regionalismi e localismi, perfino all’interno di una stessa città si riscontrano differenze comunicative fra giovani di quartieri diversi.
Lo slang giovanile è inoltre fortemente condizionato dai social e dai “banditori” che imperversano su youtube. Da quel mondo, in particolare, vengono fuori espressioni come “sei pro” (sei un vero professionista), oppure “mi stai targhettando” (mi stai seguendo), “che proata!” (che mossa efficace).
Il mix tra anglicismi e influenze social produce termini come killare (uccidere), lovvare (amare), shottare (colpire), bannare (buttare fuori per scorrettezza da un gioco), joinare (entrare in partita), flashare (vedere di sfuggita, o immaginare), fino ai più noti whatsappare, instagrammare, twittare.
La velocità e la fruibilità sono le caratteristiche principali di questa lingua sotterranea, che poi troviamo sublimata nelle forme artistiche amate dai giovani come il rap o trap.
L’esigenza della rapidità si manifesta soprattutto nelle forme contratte, tipo: tranqui (tranquillo/a), o raga (ragazzi, in forma vocativa). In alcuni casi la rapidità si unisce alla creatività e nascono addirittura forme esotiche, tipo jamairo (già mi hai rotto). Lo slang è inoltre colorito da numerose metafore o metonimie (inconsapevoli), quindi troviamo, ad esempio, “zainetto” a indicare una “matricola” iscritta al primo anno del liceo.
I giovani largheggiano anche nell’utilizzo giocoso dei nomi propri, adattandoli per antonomasia o assonanza a situazioni “tipo”. Per cui Guido è l’autista di tutti i bus e Jack è il nomignolo che si affibbia a una cosa da restituire (per la sua rima con back).
Non possiamo esimerci, in questa panoramica, dal ricordare poi termini consacrati anche dalla cinematografia dedicata al mondo giovanile come scialla(stai sereno), accollarsi (appiccicarsi), dire una calla (mentire), oppure impischellarsi (fidanzarsi), buzzicozza (unione di buzzicona e cozza).
Insomma, dentro a una qualsiasi lingua c’è l’identità di chi la “conia” e qui troviamo vitalità, ironia e una certa raffinata fantasia.
Bisognerebbe trovare il modo di bilanciare le diverse forme comunicative, in modo tale da rendere i nostri figli “poliglotti”, padroni anche della lingua in cui sono scritti i libri e che reca con sé la nostra cultura, e cioè l’italiano.
E’ una bella sfida.