A Venezia79 Alejandro G. Iñárritu svela il suo “BARDO”, Cate Blanchett mattatrice con “TÁR” di Todd Field
Due stelle di peso del firmamento hollywoodiano sbarcano al Lido: il regista Alejandro G. Iñárritu con il suo “BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades”, targato Netflix, un racconto personale e sociale del Messico che si gioca tra sguardi felliniani e analogie con il cinema di Alfonso Cuarón. Ancora, è ormai di casa alla Mostra la diva Cate Blanchett, che accompagna in Concorso “TÁR” di Todd Field: un’acclamata direttrice di orchestra all’apice del successo è chiamata a fare i conti con la propria ingombrante ambizione
Si entra nel vivo della gara nel secondo giorno della 79a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. Due stelle di peso del firmamento hollywoodiano sbarcano al Lido: il regista Alejandro G. Iñárritu con il suo “BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades”, targato Netflix, un racconto personale e sociale del Messico che si gioca tra sguardi felliniani e analogie con il cinema di Alfonso Cuarón. Ancora, è ormai di casa alla Mostra la diva Cate Blanchett – è stata presidente della Giuria nel 2020 –, che accompagna in Concorso “TÁR” di Todd Field: un’acclamata direttrice di orchestra all’apice del successo è chiamata a fare i conti con la propria ingombrante ambizione. Punto Cnvf-Sir dalla Mostra.
“BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades” – in Concorso
Ha vinto tutto o quasi il regista Alejandro G. Iñárritu, e con appena dieci lungometraggi. Forte di cinque Premi Oscar (tra cui due come miglior regista) e riconoscimenti al Festival di Cannes, torna alla Mostra di Venezia a otto anni da “Birdman” del 2014 (film d’apertura dell’edizione 71), mettendosi seriamente in corsa per il Leone d’oro. Con “BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades”, da lui diretto e scritto a quattro mani con Nicolás Giacobone – Iñárritu ne cura anche montaggio e musiche –, mette in campo un progetto ambizioso e imponente, dai richiami personali e al contempo legato alla memoria sociale del proprio Paese.
La storia. Los Angeles, Silverio (Daniel Giménez Cacho) è un giornalista e documentarista di origini messicane che vive da anni negli Stati Uniti con moglie e figli. Quando riceve un importante riconoscimento in Messico decide di valicare il confine e ritornare nel suo Paese natale, attivando un flusso di ricordi ed emozioni.
Rapsodico, lirico, onirico, a tratti delirante. Con “BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdades” Iñárritu sembra rifarsi allo stile di racconto di Federico Fellini, in primis a “8½”, con richiami poi a “Giulietta degli spiriti” e “E la nave va”. Un torrenziale flusso di ricordi e suggestioni che in alcuni passaggi sembrano rifarsi al successo del compatriota Alfonso Cuarón, il suo struggente “Roma” (2018), come pure a “The Tree of Life” (2011) di Terrence Malick. A ben vedere, “BARDO” è ben altro ancora: un racconto che annoda frammenti del passato del regista con una storia di finzione che oscilla tra realismo e immaginazione, un groviglio di emozioni e allucinazioni. Come sottolinea l’autore: “Il tempo e lo spazio si intrecciano, e la narrazione che costituisce ‘la nostra vita’ non è molto più di un falso miraggio. (…) È la verità dell’emozione che io voglio ricercare, nell’enorme baule pieno di chimere che mi porto dietro”.
Nell’insieme, “BARDO” è un’opera che stupisce per ambizione, regia e messa in scena; un film denso e imponente che rischia però di rimanere impigliato in un narcisismo espressivo poco controllato. Il talento di Iñárritu non si discute, la sua regia e la sua idea di cinema sono del tutto solide, lungimiranti, ma qui la linea del racconto rischia di scappare di mano, disarcionata da una lunghezza eccessiva (174’). Nel racconto tanti i temi di rilievo, a cominciare dalla famiglia, dal rapporto genitore-figlio, dall’esplorare il dramma di una genitorialità mutilata dalla perdita di un figlio appena nato e del complesso percorso di accettazione di tale tragedia. E ancora, una riflessione sul senso del cinema, del giornalismo e del forte dissidio culturale-identitario che corre sul confine tra Messico e Stati Uniti. Un’opera che pone le basi per un premio di peso a Venezia79. Film complesso, problematico-poetico, per dibattiti.
“TÁR” – in Concorso
È il suo terzo lungometraggio in vent’anni. Dopo l’acclamato esordio con “In the Bedroom” (2001), seguito poi dal meno fortunato “Little Children” (2006), il regista, attore e sceneggiare statunitense Todd Field torna dietro la macchina da presa con un progetto preciso, “TÁR”, pensato appositamente per l’attrice-musa Cate Blanchett. Come racconta lui stesso: “Se avesse rifiutato, il film non avrebbe mai visto la luce. I cinefili, gli appassionati e il pubblico in generale non ne saranno sorpresi. Dopotutto, Blanchett è una maestra assoluta”.
La storia. Berlino oggi. Lydia Tár (Blanchett) è una direttrice d’orchestra e una musicista di fama internazionale. Partita dagli Stati Uniti, si è imposta nel tempio della musica classica in Germania, nella Filarmonica di Berlino. Legata sentimentalmente a una collega, il primo violino (Nina Hoss), si divide tra viaggi, concerti e insegnamento. Quando sta per coronare il suo progetto artistico sulla V sinfonia di Gustav Mahler, iniziano a uscire su di lei spinose indiscrezioni. Ex collaboratrici e allieve l’accusano di abusi e manipolazioni. La donna però non è disposta a cedere, a veder franare il suo mondo dorato.
L’eccellenza di Cate Blanchett è granitica. Due volte Premio Oscar – attrice non protagonista per “The Aviator” (2005) e protagonista per “Blue Jasmine” (2014) –, gestisce ogni ruolo in maniera accurata e sorprendente, ponendosi seriamente nel solco della veterana Meryl Streep. In “TÁR” si carica con convinzione il peso di un’opera che ruota su di lei, chiedendole di mettersi in gioco in chiave fisica, espressiva e introspettiva. Lydia Tár è un’eccellenza della musica, un direttore d’orchestra, dall’aura inappuntabile. La sua perfezione sembra quasi discostarsi dalla materia umana. Nel corso della narrazione, però, emergono i segni di una personalità complessa e stratificata, che nasconde tanto fragilità quanto problematiche zone d’ombra.
Nell’ormai sedimentato processo del #MeToo, che ha portato a far emergere abusi nel mondo dello star system (soprattutto ai danni delle donne), il film di Todd Field allarga il campo dello sguardo sottolineando come il potere al vertice logori chiunque, uomini e donne; comportamenti spregiudicati e ricattatori non hanno sesso, sono solo l’espressione di un’umanità corrotta e deragliata. Nel complesso “TÁR” è un film che parte con grande rigore e intensità, non solo per la performance della Blanchett ma anche per la regia nitida dello stesso Field; la narrazione perde però progressivamente ritmo e compattezza, avvitandosi in un finale poco incisivo. Complesso, problematico, per dibattiti.
La nota critica di Massimo Giraldi, presidente Cnvf – Giuria Signis
“Il secondo giorno a Venezia79 lancia due film in corsa non solo per il Leone d’oro ma anche per la partita dei prossimi Oscar. Anzitutto Alejandro G. Iñárritu con ‘BARDO’ firma la sua opera più ambiziosa, che si può accostare allo sguardo indagatore di ‘Birdman’. Un racconto sociale impastato di odio-amore per la sua terra, tradizioni che si scontrano con fratture-rimossi collettivi. Un’opera intima e al contempo visionaria, che stupisce ma non convince del tutto. La lunga narrazione condiziona i singoli personaggi, che non sempre mantengono la necessaria lucidità. Todd Field, invece, torna al grande cinema con una vicenda attuale, di forte resa drammatica. Servendosi del talento sconfinato della Blanchett, ci consegna il ritratto deformato di un mondo di assoluta bellezza, quello della musica classica: tra le sfumature del sublime si annidano le miserie dell’uomo, gli inciampi del male. Una vertigine ossessiva senza ritorno dove non c’è spazio per la salvezza”.