550 anni dalla morte delle beata padovana Eustochio. La croce cura i mali dello spirito
Nel 550° anniversario della morte di Lucrezia Bellini, l’urna con il suo corpo viene traslata domenica 10 febbraio dalla chiesa di San Pietro alla cattedrale, dove resterà per un anno. Beata Eustochio Una breve vita aggrappata al crocifisso per fare delle sofferenze, fisiche e spirituali, uno strumento di salvezza.
Era il 13 febbraio del 1469 quando si chiusero per l’ultima volta, nel monastero padovano di San Prosdocimo, gli occhi di suor Eustochio, al secolo Lucrezia Bellini. Aveva appena 25 anni ma il male l’aveva logorata al punto da non concederle respiro, da farle agognare l’eterno riposo tra le braccia del Padre. Un male personale che si chiamava demonio. A 550 anni di distanza la Chiesa di Padova ricorda questa sua beata con una cerimonia che domenica 10 febbraio apre l’anno giubilare a lei dedicato: una solenne processione partirà alle ore 15.30 dalla chiesa di San Pietro e porterà l’urna della beata lungo via Patriarcato e piazza Capitaniato, passerà sotto l’arco dell’Orologio per giungere quindi in piazza Duomo.
L’urna, accolta dalla recitazione dei Vesperi, sarà collocata all’interno della basilica cattedrale presso la cappella Giustiniani dove resterà per tutto l’anno esposta alla venerazione dei fedeli. In cattedrale si celebreranno le messe con le preghiere di guarigione e liberazione che si tenevano a San Pietro ogni terzo sabato del mese alle ore 10, la prima sarà sabato 16 febbraio. «La traslazione in duomo – sottolinea l’arciprete della cattedrale mons. Maurizio Brasson – darà una dimensione ancora più pastorale al culto mettendo a disposizione dei fedeli un servizio religioso adeguato, con messe e confessioni». Per l’occasione è stata rifatta la maschera mortuaria della beata costruita attraverso la rilevazione con scanner 3d del cranio, in modo da ricostruire le sue fattezze nel modo più fedele possibile.
E sono tanti i fedeli che ancora l’invocano, con una venerazione fervida e spontanea come quella che si manifestò inaspettata il 12 settembre 1806 quando, alle due del mattino, il corpo della beata fu traslato “di nascosto” dal monastero di San Prosdocimo, soppresso per decreto napoleonico, alla chiesa di San Pietro: non si sa come il passa parola aveva convocato lungo il tragitto una gran folla di padovani che accompagnarono l’urna alla sua nuova destinazione.
Ma perché la beata padovana, una suora benedettina nata nel 1444 da un’esecrabile relazione tra un uomo sposato, Bartolomeo Bellini, e una monaca, Maddalena Cavalcabò, è così conosciuta e implorata da tanta gente, non solo padovana? La beata Eustochio (assunse questo nome, che era quello di una discepola di san Girolamo, all’atto della professione religiosa) tormentata per tutta la vita dalle possessioni diaboliche, che non le impedirono di intraprendere la via della salvezza, anzi furono da lei trasformate in uno strumento di santificazione, è invocata contro ogni sorta di diaboliche tentazioni: è una risorsa per guarire i tanti “malesseri dello spirito” che percorrono la società moderna e, nonostante i progressi della scienza, spesso non trovano ancora nome né cura.
«Negli ultimi anni – sintetizza mons, Pietro Brazzale, postulatore diocesano delle cause dei santi – grazie all’interesse dimostrato da papa san Giovanni Paolo II e dal famoso esorcista padre Gabriele Amorth, si è sviluppata una devozione che ha dello straordinario verso la beata Eustochio, invocata soprattutto dagli esorcisti e da chi vuole superare tante situazioni di contrasto e di divisione tra le persone. La santità che viene mostrata dalla beata è genuina e accolta con simpatia perché con il suo esempio invita alla preghiera, all’accettazione delle proprie croci, a vincere il male, a perdonare, a vivere nell’umiltà e soprattutto ad amare la Chiesa».
La traslazione dell’urna in cattedrale mette sotto gli occhi di tutti i fedeli questa donna che soffrì molto, fisicamente, spiritualmente, a causa di vessazioni diaboliche. Figlia illegittima di una monaca, fu rifiutata dal padre e dalla matrigna che a sette anni la lasciarono come educanda nello stesso monastero in cui era stata concepita. Quando il cenobio venne rifondato, con l’arrivo di una nuova badessa e di suore d’altre comunità, solo lei volle rimanere anche se era mal vista dalle nuove venute, chiedendo di fare lì la sua professione solenne, a 21 anni, nonostante i tormenti fisici e morali di cui era vittima. Aveva il crocifisso sempre in mano, che era per lei unica sorgente di fiducia e fortezza, di pace e serenità. Le sue massime virtù furono la pazienza e l’obbedienza, come prescritto dalla regola di san Benedetto e come le raccomandava il confessore, l’unico che credesse in lei e che riuscisse a leggere la forza d’animo che traspariva dietro le continue vessazioni.
«Offrì tutto – sottolinea mons. Brazzale – per la Chiesa e per i peccatori. E alla Chiesa di Padova, a laici e sacerdoti, il suo esempio è un richiamo ad essere accanto a chi soffre, ad essere fedeli alla missione di fronte a tante sofferenze fisiche e spirituali della gente. È un invito alla purificazione della Chiesa, ad aprire gli occhi di fronte all’azione nascosta, ma tremenda, di satana. È un invito alla preghiera accanto al suo corpo: la preghiera è sempre medicina ricostituente, iniezione di forza e di energia spirituale, per i singoli cristiani e per la Chiesa»