Redditi e potere d’acquisto. Zanfrini (Wwell Cattolica): “Il ‘cattivo lavoro’ ha favorito il riallineamento verso il basso della qualità dell’occupazione e delle retribuzioni”

Lavoratori con gli stipendi più bassi tra i Paesi del G20 e più famiglie a rischio di povertà o esclusione sociale. È l’Italia che restituiscono i dati diffusi in settimana da Ilo e Istat, con evidenti divari territoriali, di genere e generazionali, oltreché un ampliamento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. “Non si può affidare l’obiettivo di una redistribuzione più equa agli strumenti di sostegno al reddito”, sostiene la docente, per la quale “l’introduzione del salario minimo potrebbe essere un passo significativo dal punto di vista simbolico, ma sicuramente non sarebbe un intervento risolutivo”

Redditi e potere d’acquisto. Zanfrini (Wwell Cattolica): “Il ‘cattivo lavoro’ ha favorito il riallineamento verso il basso della qualità de...

“Il ‘cattivo lavoro’ è un virus contagioso che diffondendosi ha finito col favorire un riallineamento verso il basso della qualità complessiva dell’occupazione e quindi anche delle retribuzioni reali”. Così Laura Zanfrini, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore scientifico del Centro di ricerca Wwell (Welfare, work, enterprise, lifelong learning) presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, commenta al Sir i recenti dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro e dell’Istituto nazionale di statistica che hanno messo in luce in Italia la perdita del potere d’acquisto dei salari e la diminuzione del reddito annuale medio delle famiglie in termini reali.

Professoressa, i dati diffusi in settimana da Ilo e Istat che Italia fotografano anche in relazione alle altre maggiori economie mondiali? Cosa ci fa essere fanalino di coda tra i Paesi del G20?
Se valesse l’ipotesi di un mercato in grado di autoregolarsi, in una fase in cui crescono l’occupazione e la produttività e in cui le imprese denunciano diffuse difficoltà nel reclutare il personale di cui hanno bisogno, i salari dovrebbero crescere anche in termini reali. Ma, come sappiamo, i mercati del lavoro contemporanei sono realtà molto complesse e ad elevata segmentazione. L’Italia, in particolare, soffre di un divario territoriale “atavico”, che da un lato rende difficile interpretare i confronti con gli altri Paesi, e dall’altro influisce inevitabilmente anche sulle dinamiche retributive. Il tema delle “gabbie salariali” continua a costituire un tabù, ma è chiaro che il valore reale dei salari è molto diverso nelle diverse aree del Paese. Per di più, occorre tenere conto che alcuni lavori a bassa qualificazione e con un basso prestigio sociale difficilmente vedono crescere la loro produttività. Tuttavia, si tratta spesso di lavori assolutamente essenziali, che meriterebbero un maggiore riconoscimento sociale e anche retributivo. Tra le altre cose,

il “cattivo lavoro” è un virus contagioso che diffondendosi ha finito col favorire un riallineamento verso il basso della qualità complessiva dell’occupazione e quindi anche delle retribuzioni reali.

I dati confermano ancora una volta i divari a discapito di donne, giovani e stranieri. Su quali fattori strutturali intervenire per ridurre i gap?
L’esempio degli immigrati è probabilmente il più paradigmatico, giacché nel loro caso sono proprio le caratteristiche alla base dell’elevata occupabilità – prima fra tutte l’iperadattabilità e il basso salario di riserva – ad avere generato un modello di inclusione occupazionale strutturalmente discriminatorio. Nel momento in cui anche gli stessi immigrati sono un po’ meno adattabili (perché, per esempio, nel caso di molte giovani donne, cercano un lavoro conciliabile con le loro responsabilità familiari), questo modello si rivela un boomerang, che fa crescere il rischio di disoccupazione e inattività. Per di più, le basse retribuzioni degli immigrati hanno generato elevatissime incidenze di famiglie straniere in povertà, con tutte le conseguenze che sempre più spesso cominciamo a registrare anche sulla qualità della convivenza interetnica e sulle prospettive delle seconde generazioni. Riporto questo esempio perché è illuminante nel farci comprendere come ciò che nel breve periodo può sembrare un vantaggio (per esempio il fatto di potere pagare meno una certa categoria di lavoratori) nel medio-lungo periodo inevitabilmente rivela le sue conseguenze sulla tenuta della coesione sociale.

Il primo fattore sul quale occorrerebbe intervenire è proprio la promozione di una maggiore consapevolezza dei costi della discriminazione: detto in altri termini, la discriminazione non è un problema dei gruppi sociali svantaggiati, ma è un problema della società.

L’Istat ha certificato che nel 2024 è aumentata la percentuale di italiani a rischio di povertà o esclusione sociale. In un’Italia in cui l’occupazione non ha mai raggiunto valori così elevati, è però aumentata la percentuale di individui che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (al 9,2% dal 8,9% dell’anno precedente). Come non rassegnarsi al “lavoro povero”? L’introduzione del salario minimo potrebbe contribuire ad invertire la rotta?

L’introduzione del salario minimo potrebbe essere un passo significativo dal punto di vista simbolico, sugellando il principio in base al quale ogni lavoro, anche il più umile e meno qualificato, merita un compenso dignitoso, che non condanni alla povertà. Ma sicuramente non sarebbe un intervento risolutivo.

Tanto più alla luce della straordinaria diffusione del lavoro nero e del lavoro “grigio”. Occorre chiamare in causa molteplici livelli di responsabilità. Inclusa quella delle aziende “socialmente responsabili”, che dedicano molte attenzioni ai propri dipendenti (magari integrando lo stipendio con generosi pacchetti di welfare aziendale) ma poi ricorrono disinvoltamente a subfornitori (banalmente per pulire bagni e uffici alla sera) selezionati attraverso gare al ribasso che evidentemente non possono garantire salari dignitosi. Dopodiché, per molte realtà, garantire un salario adeguato all’impegno richiesto ai lavoratori e alle lavoratrici può essere non sostenibile: si pensi, ad esempio, alle residenze per anziani, costrette a far quadrare i conti senza imporre rette troppo alte. Specie quando si tratta di lavori essenziali e di alto valore sociale (come appunto sono i lavori nel campo della cura e dell’assistenza) avrebbe allora senso pensare a interventi di sussidiarizzazione del costo del lavoro a valere sulla fiscalità generale.

A proposito di diseguaglianze… Secondo l’Istat, nel 2023, l’ammontare di reddito percepito dalle famiglie più abbienti è 5,5 volte quello percepito dalle famiglie più povere (in aumento dal 5,3 del 2022) riavvicinandosi al valore pre-pandemia del 2019 (5,7). La minore redistribuzione può essere giustificata con le modifiche alle misure di contrasto alla povertà?
Chiaramente nel breve periodo la perdita di un sussidio cui prima si aveva diritto può accentuare la vulnerabilità dei soggetti più fragili. Al tempo stesso è chiaro che

non si può affidare l’obiettivo di una redistribuzione più equa agli strumenti di sostegno al reddito.

Altre sono le leve da attivare: prima fra tutte il contrasto all’evasione fiscale, ancora drammaticamente diffusa e i cui nessi con il “cattivo lavoro” sono peraltro evidenti. E sicuramente occorre concentrare gli interventi di sostegno al reddito sui beneficiari impossibilitati a lavorare, mentre per tutti gli altri ha senso investire soprattutto sulle iniziative per l’attivazione.
Infatti, guardando al futuro, dati gli scenari demografici che ci attendono (con sempre più anziani e sempre meno persone nelle fasce d’età attiva), la possibilità di implementare tanto le politiche redistributive (sotto forma soprattutto di servizi garantiti alle fasce sociali meno abbienti, pensiamo al tema delle cure sanitarie), quanto interventi di sostegno al reddito dipenderà proprio dalla capacità di far crescere i tassi di attività e di occupazione, oltre che le retribuzioni.

Sostenere l’inclusione occupazionale anche dei gruppi tradizionalmente più svantaggiati (anche dal punto di vista territoriale), mettere a valore tutto il potenziale inutilizzato (si pensi ai fenomeni di overqualification che, di nuovo, colpiscono più alcuni gruppi sociali che altri) e garantire a tutti/e un salario dignitoso sono obiettivi non solo di ordine “etico”, ma dai quali dipende la sostenibilità dei nostri modelli economico-sociali e dei nostri sistemi di welfare.

Alberto Baviera

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Fonte: Sir