Questo dramma ci riguarda. Non rassegniamoci a lasciare dei lati bui nelle camere, nelle menti e nei cuori dei nostri figli
Non possiamo delegare solo agli esperti il compito di intercettare e prevenire i disagi esistenziali e “il male di vivere” dei nostri figli
Man mano che passano i giorni, la strage famigliare di Paderno Dugnano si allontana dalle notizie più importanti e i commenti lasciano spazio al silenzio, ma nell’intimo delle famiglie italiane riecheggia ancora una domanda di senso di fronte ad una manifestazione così dirompente ed imprevedibile del male. Davvero vorremmo vivere la parola di Dio a Caino: “il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Gen 4,7); eppure, da sempre vi sono uomini, anche quelli apparentemente più innocenti, che non riescono a dominare la violenza di cui è impastata la nostra natura. Da dove viene questo male? Chi crede sa che (seppure vinto da Cristo) esiste ancora un Nemico, il diavolo, che come leone ruggente va in giro cercando chi divorare (cfr. 1Pt 5,8), ma la possibilità di dare un nome a questo tremendo avversario della vita, non diminuisce lo sgomento e tutti – credenti e agnostici – siamo accomunati da un ancestrale desiderio di Bene che si contrappone flebile alla paura per ciò che di tremendo è accaduto. La prima reazione, dopo l’orrore è quella di chi vuole fare troppo in fretta i conti con la propria coscienza e si dice: “a noi non potrà mai succedere!”. È un tentativo, quasi d’istinto, di deresponsabilizzarsi e va di pari passo con l’accanimento con cui i media cercano, fin dal primo minuto, di trovare qualche anomalia nella famiglia in cui un ragazzo di 17 anni si è reso carnefice dei genitori e del fratello di 12. Un movente, una precisa causa scatenante, per quanto assurda e ingiustificata, oppure una rara psicosi ci servirebbero per tirarci fuori, per distanziarci dalla tragedia per poi rimuoverla e dimenticarla. Ma in questo caso, come in tanti altri precedenti, non abbiamo scampo: sono stati uccisi da un figlio proprio come i nostri, due genitori proprio come noi e un fratello innocente proprio come Abele. È successo dopo una festa di compleanno del papà, come quelle che facciamo in tutte le nostre case. Poche ore prima di avventarsi con un coltello su suo fratello minore il colpevole stava giocando con lui alla Playstation. Nulla di più normale, ma forse è proprio questa normalità che dovremmo avere il coraggio di leggere in profondità. Anche in quelle che potrebbero sembrare le famiglie più serene spesso è ostruita la comunicazione fra adulti e giovani. Se ci accontentiamo di mantenere i nostri figli senza sentire l’urgenza di farli diventare grandi, quale presente stiamo offrendo agli adolescenti e quale futuro alle generazioni che verranno? Si sta assottigliando lo spazio della pura e semplice condivisione. Condivisione prima di tutto di tempo di qualità e quindi di esperienze e di valori: poter sperimentare insieme il poliedro misterioso della vita: cosa sia bene e cosa male, come affrontare la fatica, il dolore, la morte. Abbiamo bisogno di essere testimoni credibili che la felicità, a cui tutti tendiamo, è il frutto maturo del sapersi spendere per un ideale e donarsi agli altri. Oggi in molti ci affidiamo ai grandi progressi fatti in campo psicologico e psichiatrico, ma non possiamo delegare solo agli esperti il compito di intercettare e prevenire i disagi esistenziali e “il male di vivere” dei nostri figli. È in casa, in ogni istante di vita comune che è necessario dare significato al nostro esistere e, se necessario, infrangere quegli invisibili muri di silenzio che soprattutto gli adolescenti erigono attorno a loro. Non rassegniamoci a lasciare dei lati bui nelle camere, nelle menti e nei cuori dei nostri figli! La capacità di autonomia dei ragazzi cresce anche e soprattutto nella fiducia di non essere lasciati soli, anche quando non sanno esprimerlo o apparentemente non lo vogliono. Come cristiani, uomini e donne che si affidano a un Dio, che in Gesù si è fatto parola e carne, siamo chiamati ad essere davvero vigilanti e ferventi per far filtrare nelle nostre relazioni più intime la luce del suo Spirito, capace di creare dialogo, di fare verità e sanare anche le ferite più segrete. Se non ci affretteremo a dimenticare le vittime, i loro cari e ancor più questo giovane “fratello nel peccato”, ma sapremo offrire a Dio la nostra più sincera com-passione per quanto avvenuto, allora anche la tragedia che oggi ci lascia attoniti potrà essere un seme che muore ma per dare un frutto di speranza e di pace.