Politica e giovani. L’autonomia e quei principi da rispettare
L’ autonomia differenziata ha l’obiettivo di “bilanciare” i principi, entrambi cari alla Dottrina sociale della Chiesa, della sussidiarietà e della solidarietà.
Ad affermarlo è il prof. Andrea Giovanardi, docente di Diritto tributario all’Università di Trento, tributarista, commercialista e avvocato cassazionista. È lui uno degli “esperti”, in particolare sul lato dei “conti” e dell’equilibrio fiscale, che hanno contribuendo a elaborare la cosiddetta legge Calderoli. Ed è, pure, impegnato nella commissione tecnica che sta lavorando sui Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, sui quali si “gioca” buona parte della riforma. In questa intervista si dice fiducioso sul possibile dialogo con l’episcopato, dopo che dalla Conferenza episcopale italiana è arrivato un richiamo a tenere, appunto, saldi i principi di sussidiarietà, insieme a una disponibilità al dialogo, espressa dal presidente della Cei, il card. Matteo Zuppi, in uno scambio di lettere con il presidente del Veneto, Luca Zaia.
Il cammino dell’autonomia si sta rivelando accidentato, nel senso che molti sono i distinguo (anche nella maggioranza di Governo che pure ha votato la legge Calderoli), i “mal di pancia”, le critiche. Se lo aspettava?
«Sinceramente, sì. Le polemiche sulla necessità e opportunità della differenziazione hanno accompagnato, fin dall’inizio, ogni passaggio dell’accidentato percorso riformatore. Era impossibile, quindi, attendersi qualcosa di diverso, nel momento in cui si è giunti al definitivo varo della legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, il quale prevede che le Regioni possano chiedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie individuate dalla stessa norma costituzionale».
Perché a suo avviso l’autonomia non dev’essere vista come un pericolo per le Regioni del Centro-Sud?
«Il Mezzogiorno vive una crisi profonda che è sotto gli occhi di tutti, lo ha ricordato anche mons. Savino, vicepresidente della Cei, nella sua recente intervista a la Repubblica. Tutto ciò anche se il 16 per cento circa del Pil del Mezzogiorno (dati Bankitalia) deriva dai trasferimenti dal Centro-Nord intermediati dallo Stato, che, come ha recentemente rilevato l’Osservatorio dei Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ammontano alla cifra monstre di circa 64 miliardi di euro l’anno, ed è il caso di ricordare che le risorse del Pnrr ammontano a circa 190 miliardi di euro in un arco di cinque anni. In un contesto come questo, si può forse pensare che sia il passaggio di qualche funzione e competenza alle regioni a generare gli sconquassi che i detrattori dell’autonomia differenziata prefigurano costantemente? A ciò, si aggiunga che la legge Calderoli prevede che le Regioni che si differenziano non potranno trattenere somme maggiori, rispetto a quanto necessario a coprire le spese delle funzioni trasferite, in un contesto di invarianza finanziaria che manterrà inalterate le entrate di cui attualmente dispongono le altre Regioni».
Immaginiamo che abbia letto anche le osservazioni che sono giunte dall’Episcopato, e in particolare la preoccupazione che tale processo avvenga garantendo non solo la sussidiarietà ma anche la solidarietà, in questo caso tra diverse zone dell’Italia. È quanto sta già avvenendo? O c’è qualcosa da precisare meglio? «Il monito della Cei è da condividersi, perché l’attuazione del principio di sussidiarietà, la cui prima definizione compiuta si deve proprio alla Dottrina sociale della Chiesa cattolica, prima con la Rerum novarum e poi con la Quadragesimo anno, non può andare disgiunto dalla concreta realizzazione del principio di solidarietà. I dati che ho citato, tuttavia, ci dicono che nel Paese c’è molta solidarietà e poca sussidiarietà: l’autonomia differenziata dev’essere vista come un tentativo di riequilibrare questa situazione, migliorando l’efficienza complessiva dei servizi pubblici resi ai cittadini, a invarianza di spesa».
In ogni caso, come giudica l’auspicato dialogo con la Conferenza episcopale italiana, prefigurato nello scambio epistolare tra il cardinale Zuppi e il presidente Zaia?
«È una grande occasione di confronto, che sarebbe un peccato non cogliere: i contenuti della riforma sono particolarmente complessi e vanno esaminati, approfonditi e discussi senza preconcetti di carattere ideologico. Sono convinto che ci siano le condizioni perché ciò avvenga».
Se il Veneto sarà così bravo da spendere meno soldi rispetto allo Stato, dovrà trasferire allo Stato tali risorse. Che autonomia è, verrebbe da chiedersi? Vale la pena di fare tutto questo cammino per ottenere un’autonomia molto prudente, secondo qualcuno al “ribasso”?
«Lei ha evidenziato quello che per me è il grande limite della riforma: se una regione è più efficiente dello Stato nell’erogazione dei servizi resi nello svolgimento delle funzioni trasferite, perché mai non dovrebbe trattenere in tutto o in parte i risparmi che è stata in grado di generare? Malgrado questo evidente difetto, tuttavia, la Calderoli va considerata in modo comunque positivo, perché con essa si prende atto da parte del legislatore che l’uniformità dei poteri di enti che devono governare territori dalle esigenze tra loro molto diverse non ha portato nulla di buono. Il senso ultimo del regionalismo non sta nell’appropriarsi delle visioni strategiche, che debbono rimanere a livello centrale, ma, piuttosto, nel tentativo di migliorare, grazie alla clausola di asimmetria contenuta nella Costituzione, i servizi alla persona, con ricadute positive su tutti i cittadini».
Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca ha lanciato l’allarme su possibili contratti integrativi regionali per medici o insegnanti. È un’ipotesi possibile, e come la valuta?
«De Luca attacca l’autonomia differenziata, proprio perché c’è il rischio che funzioni. Partiamo dalla sanità: il progetto riformatore non influirà sulla ripartizione delle risorse, che rimarrà ancorata alla popolazione residente nelle varie regioni, ponderata con l’età degli abitanti. Ebbene, se senza togliere nulla a nessuno, una Regione riuscisse a pagare di più i medici meritevoli, in modo da evitare che escano dal servizio sanitario nazionale, considerando anzi la permanenza in esso come un’occasione di crescita professionale, perché mai tutto questo dovrebbe essere considerato negativamente? Peraltro, della maggiore efficienza usufruiranno anche i residenti nelle altre regioni, i quali potranno contare sulla possibilità di curarsi in tutto il territorio nazionale, acquisendo nel contempo maggiore consapevolezza sulla responsabilità di chi, a parità di risorse, li obbliga a “emigrare” per poter usufruire di cure più adeguate. Per quel che riguarda l’istruzione, le sembra possibile che a ogni inizio di anno scolastico manchino all’appello nelle regioni settentrionali migliaia di insegnanti, causando un grande ritardo nella ripresa e nella continuità didattica e danneggiando la preparazione degli studenti? Non è, forse, ovvio che un insegnante del sud che lavora in Lombardia o in Veneto chieda il trasferimento, essendo costretto a vivere con uno stipendio dappertutto uguale dal punto di vista nominale, ma nella realtà profondamente diverso, date le differenze del costo della vita nelle varie aree del Paese?».
I Lep sono un punto essenziale, ma non bastano
Andrea Giovanardi: «Tra qualche mese si arriverà alla definizione dei Lep in materie quali la tutela e la sicurezza del lavoro, l’ambiente e il governo del territorio. Un passaggio sicuramente molto importante, che prescinde dall’autonomia, giacché le soglie minime per le prestazioni concernenti i diritti civili e sociali vanno determinate anche per i servizi gestiti dallo Stato. Non si caschi, tuttavia, nell’errore di credere che basti fissare i Lep: la spesa pro capite nella sanità, sono dati Svimez, di Lombardia e Sicilia è coincidente, eppure i livelli del servizio che i due sistemi offrono sono molto diversi tra loro».