Persi, anche dentro le parole. Intervista al prof. Michele Cortelazzo
Michele Cortelazzo, ordinario di Linguistica italiana, chiude la rubrica "La parola", raccontandoci la “mutazione” del linguaggio corrente dopo il Covid. E dimostra quanto ci sentiamo disorientati e impauriti quando ci esprimiamo. In internet “morte” e “malattia” sono molto più associate al Covid19 di “guarigione”. E sarebbe più corretto parlare di “distanzamento personale”
Rimosse, nascoste, fraintese o mutuate. Le parole dell’epidemia hanno contagiato tutti. E il “vocabolario Covid”, in poco più di un anno, ha ammorbato la vitalità delle nostre conversazioni.
«Fissiamo subito il punto. Covid è una malattia, perché nell’acronimo inglese Corona Virus Disease 19 il termine disease si traduce, appunto, con malattia. Invece, Covid in toto sembra significare virus» sottolinea Michele Cortelazzo, professore ordinario di Linguistica italiana e direttore della scuola Galileiana del Bo.
Abbiamo smarrito il senso originale dei vocaboli? Cosa comporta?
«Curiosando in internet, ho cercato quante pagine web connettono Covid con tre parole-chiave. Risulta che è collegato a “morte” cinque volte più che a “malattia”. Addirittura 15 volte tanto rispetto a “guarigione”. Il flusso collettivo online dimostra che abbiamo correlato il mostro Covid con la morte (che, ovviamente, c’è), ma rimosso la fase più dura della malattia prima della morte e lasciato molto sullo sfondo la guarigione».
Cos’altro emerge sul “linguaggio Covid”?
«La sigla serve esattamente a sgombrare il campo da parole già note. Covid così diventa un mostro e il linguaggio si focalizza sugli esiti estremi, anche per negarli. La malattia in sé viene nascosta: del resto, i pazienti “scompaiono” in ospedale, non si vedono né si possono andare a trovare. Con lo stesso slittamento si eclissa il linguaggio».
Una sorta di implosione delle parole?
«Un evento così devastante, pervasivo, totalizzante sulla vita personale e sociale non poteva non creare nuovo lessico e in una misura che non ha precedenti, grazie alla rapidità di attecchimento dell’emergenza Covid per di più a livello mondiale. Appena un anno fa, letteralmente, non esistevano parole che oggi usiamo perfino più di pane o caffè...».
Appunto, un vocabolario “rivoluzionato” dalla pandemia?
«Il meccanismo lo rivela, per esempio, il termine aerosol. Era una terapia, uno strumento di guarigione, una piccola macchina. Invece ora si usa – per altro, correttamente – solo per indicare le particelle nell’aria portatrici della malattia. Il significato delle parole è cambiato sotto i nostri occhi, senza che ce ne rendessimo conto. Emblematica da questo punto di vista l’opposizione malattia-guarigione che il Covid ha monopolizzato sul primo versante».
Sigle, termini inglesi, colori: qual è la deriva linguistica?
«Lockdown, smart working, Dad fanno ormai parte del senso comune. L’uso dell’anglicismo possiede un valore eufemistico enorme, anche per chi non conosce l’inglese. Didattica a casa avrebbe un impatto diretto e concreto, mentre Dad lo rende più astratto. Il lessico di quest’ultimo anno ha diverse stratificazioni: lo stiamo imparando in velocità con un mutamento enorme. Distanziamento sociale? Un errore logico. Se mai, è personale. Sembra quasi un lapsus che svela il processo di isolamento e insieme la rottura della socialità, anche familiare. Una voce internazionale viene tradotta senza spirito critico: ci dice che si globalizzano i termini linguistici, insieme alla malattia. Così cambia il nostro lessico globale con la terminologia scientifica (Rna messaggero, proteina spike) che diventa d’uso quotidiano».
Il lockdown ha mantenuto il significato originale?
«Il vocabolo inglese ha vinto nei confronti di “clausura, reclusione, segregazione” che rimandavano a un’idea di carcerazione volontaria. Lockdown ha una valenza neutrale, comporta scarsa partecipazione emotiva. Ma fa sorridere il fatto che, in realtà, significa ciò che scatta in caso di una sommossa in carcere: tutti i detenuti chiusi nella loro cella. Etimologicamente, lockdown è più “carcerario” eppure lo usiamo come sinonimo neutro».
Poi ci sono i colori a scandire la libertà di movimento...
«Lockdown mascherava il significato, ma si era capito l’effetto reale: ha acquisito la connotazione di ostilità e di limitazione della libertà. Allora si è passati al “semaforo” per le regioni: in sé e per sé l’uso dei colori cerca di vivacizzare una situazione sempre difficile. Fino ad arrivare all’arancione rafforzato, quasi fosse un tipo di spritz».
Infine, i mass media: qual è il bilancio della comunicazione sul Covid?
«È stato uno stress test sul grado di preparazione dei mass media, ma anche della comunicazione politico-amministrativa. Ha dimostrato il totale fallimento: il premier Conte che annunciava conferenze stampa, che poi slittavano e si facevano in orari quasi notturni. Magari con messaggi del calibro di “Soffriamo adesso per abbracciarci domani”. Gli scienziati, poi, non capivano che le loro discussioni da simposio non si possono replicare in televisione. Infine, la stampa che è stata a rimorchio dei social. Del resto, il sistema dei media riflette la società: emergenze gestite, nei fatti, con una grande confusione. E i quotidiani hanno fatto prevalere la fotografia istantanea della realtà rispetto al quadro critico. Una macchina mediatica sempre in corsa continua, con lo spettro della concorrenza spietata. Un po’ isterica, quando servivano interpretazioni dei fatti più meditate e con la vicenda AstraZeneca si è raggiunto l’acme dell’ansia informativa».
Michele Cortelazzo
Laureatosi all'Università di Padova nel 1974, è docente ordinario di Linguistica italiana dopo aver insegnato in altre università italiane e straniere. Direttore della scuola Galileiana di studi superiori dell'Università di Padova, insegna anche nella facoltà di lettere dell'Università di Fiume in Istria. È accademico ordinario dell'Accademia della Crusca. Dal 2018 al 2020 è stato presidente dell'Associazione per la storia della lingua italiana (Asli).