La presenza della Chiesa nel pubblico dibattito. Perché serve una nuova Camaldoli per l’Europa
Sono i giorni in cui papa Francesco – con incredibile vitalità – si appresta al nuovo viaggio apostolico nel cuore dell’Europa, in Lussemburgo e in Belgio. La visita arriva nell’immediatezza del varo di una nuova Commissione alle prese con una situazione geopolitica ed economica del tutto particolare, dentro e fuori dai confini dell’Europa e, soprattutto, chiamata a gettare le basi del futuro dei 27 e dell’intero continente anche alla luce dei rapporti commissionati da Mario Draghi ed Enrico Letta.
Alla luce di questo, particolarmente illuminante è parsa l’idea del card. Zuppi che, aprendo la sessione autunnale del Consiglio permanente della Cei, lunedì scorso ha parlato della necessità di una «Camaldoli per l’Europa». Il riferimento, com’è noto, è a quel Codice di Camaldoli che un gruppo di intellettuali cattolici ha redatto nell’importante monastero toscano nel luglio 1943, mentre l’Italia e l’Europa sprofondavano nella violenza brutale della Seconda guerra mondiale dopo decenni segnati da dittature e regimi autoritari in diversi Paesi. Quelle menti, nell’infuriare del conflitto, ebbero la forza di guardare avanti, di offrire al mondo una visione per il futuro. Un’iniziativa che contiene in sé un’enorme testimonianza, preziosa soprattutto in un tempo in cui sembrano saltate molte delle certezze sulle quali si è sviluppata la nostra civiltà (e il nostro benessere occidentale): è proprio quando i punti di riferimento di sempre vengono a mancare, quando i dubbi minano la capacità di progettare che è importante non perdere la speranza. La speranza intesa non certo come un vago ottimismo, ma nel senso pieno del suo significato in quanto virtù teologale, centrale nel cristianesimo. Nascono da qui due immediate riflessioni. La prima riguarda l’anno santo 2025, con “Pellegrini di speranza” come motto di un Giubileo ordinario verso il quale cresce l’attenzione delle Chiese in Italia e nel mondo, che pure attendono anche la seconda e ultima sessione del Sinodo sulla sinodalità che si aprirà in Vaticano il 2 ottobre. «Guardare al futuro con speranza – si legge nella bolla di indizione del Giubileo Spes non cunfundit – equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere». In una società in cui si nasce ricchi, non si ha più la percezione della povertà, intesa non tanto come privazione di mezzi, ma della possibilità di autodeterminarsi, di scegliere se e cosa studiare, di imparare un mestiere o di esercitarsi in uno sport; si rischia di vedere solamente ciò che non risponde perfettamente ai canoni della perfezione, tralasciando fenomeni molto più gravi e profondi in atto in Paesi confinanti (o quasi) con il nostro. Alzare lo sguardo dal cortile di casa nostra significa ridare il giusto valore alla nostra situazione e nutrirsi della ricchezza dell’umanità (spesso più alta proprio dove l’economia arranca di più). L’entusiasmo di cui parla papa Francesco proviene esattamente da qui: collaborare per il bene comune, sviluppare relazioni tra singoli e popoli, mettere a disposizione conoscenze e competenze per consegnare il pianeta in salute alle future generazioni. La seconda riflessione riguarda il contributo dei cattolici e dei cristiani in genere a tracciare linee di futuro, come avvenne a Camaldoli 81 anni fa. La presenza (o l’assenza) della voce dei cristiani nel dibattito pubblico rimane un tema aperto. C’è un’attesa continua perché ad esprimersi siano il papa o i vescovi, i semplici battezzati non sembrano avere l’autorevolezza necessaria. Ma non solo: spesso la Chiesa stessa (con le dovute eccezioni) tende a rimanere fuori dal confronto, specie se i temi sono divisivi. Perché accade? Forse la secolarizzazione la rende meno ascoltata e quindi meno significativa? Forse il livello della discussione implica delle conoscenze che pensa di non avere al proprio interno? Può sembrare che fare un passo indietro preservi la Chiesa dal rischio di presenzialismo (vedi i primi anni Duemila) in realtà significa negare alla collettività un contributo, privarla di un apporto alla visione del futuro.