Il valore del fine vita. Tra cinema e proposte di legge
Tra il film di Almodóvar e la discussione di una legge in Senato, il tema torna al centro dell’attenzione. Con le dovute precisazioni
Cosa sono le cure palliative? E la sedazione palliativa? E poi si dice accanimento terapeutico o è preferibile parlare oggi di ostinazione clinica? Sono solo alcuni aspetti di un tema che ci investe, tutti, sul piano morale, culturale, legislativo. Il fine vita. Per sgombrare il campo dalla confusione lessicale, lo scorso fine giugno la Pontificia accademia per la vita ha pubblicato il Piccolo lessico del fine vita (Libreria editrice vaticana, 88 pagine, 12 euro), eppure l’opuscolo a inizio agosto è stato citato da diverse testate giornalistiche leggendoci all’interno “aperture” da parte della Chiesa soprattutto in tema di nutrizione e alimentazione. «Questa pubblicazione aveva lo scopo principale ed esplicitato di chiarire termini e concetti che spesso vengono usati anche impropriamente quando si parla di fine vita – chiarisce don Renzo Pegoraro – Il tutto per avere discussioni corrette e più fruttuose evitando equivoci e strumentalizzazioni. Contestualmente si spiega qual è l’insegnamento della Chiesa, ormai da decenni, quando si dice che la terapia del dolore, fino talvolta alla sedazione, è un approccio doveroso verso il malato e in dialogo con il malato, fino a quando non ci sono altre soluzioni per evitare dolori e sofferenze sproporzionate. E così anche era già stata recepita la necessità di evitare forme di accanimento terapeutico, il dovere di evitarlo garantendo la buona assistenza e l’accompagnamento con le cure palliative. La Chiesa non ha mai detto che bisogna curare a tutti i costi quando non ci sono più possibilità. Sappiamo la complessità del tema dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, è importante questa precisazione, un tipo di assistenza via somministrazione che va valutata di volta in volta, in base alla condizione clinica e anche ai disagi che si possono provocare, quali benefici ci si può aspettare. Quindi non ci sono stati “cambiamenti”, ma lo sforzo di precisare meglio e interpretare per aprire a maggiori discussioni».
A proposito di discussioni, a fine giugno Francesco Boccia, capogruppo del Partito democratico in Senato, ha affermato che riprenderà in parlamento, il prossimo 17 settembre, l’iter della proposta di legge che dovrebbe disciplinare il fine vita sul tema specifico dei limiti di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Qui ritorna l’ormai “famosa” sentenza della Corte costituzionale... «Chiaramente è un problema tutta la questione di come affrontare la situazione che si è creata dopo il pronunciamento della Corte costituzionale nel 2019, che ha confermato il divieto al suicidio assistito, ricordiamolo, e che ha solo precisato che in certe condizioni non è più punibile. Tutto il resto rimane reato, eccetto al manifestarsi di quattro condizioni come l’applicazione di un sostegno vitale, una sofferenza insopportabile, una malattia irreversibile e che ci sia una libera espressione di volontà. Il punto è che la sentenza della Corte continua a invocare una legislazione, insomma il Parlamento deve normare a riguardo, la Corte “ha aperto la porta” a quelle condizioni, ma ci sono diversi punti non chiariti che possono aprire ad abusi o interpretazioni altrettanto pericolose. Quale sia lo strumento per uscire dall’impasse non è facile determinarlo: che norma occorre? Ci rifacciamo alla tradizione delle “leggi imperfette” pur di evitare conseguenze peggiori? Una legge su base nazionale in modo da evitare che le singole Regioni si muovano in autonomia? Che ruolo ha il Sistema sanitario nazionale? Viene coinvolto? E l’obiezione di coscienza degli operatori viene presa in considerazione? Sarebbe auspicabile che ci sia una certa discussione anche nella Chiesa italiana per capire come muoversi proprio in dialogo con il mondo giuridico e politico, ma anche chiedendo il coinvolgimento di medici e infermieri che hanno impegni e responsabilità in questi campi. Tenendo presente che in Italia abbiamo già due leggi – la numero 38 del 2010 sul diritto di accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, che va potenziata sempre di più, e la legge numero 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento, che già permette di sospendere o rifiutare i trattamenti sanitari in atto – se adeguatamente applicate, con queste due leggi si potrebbero gestire le situazioni più difficili senza arrivare alla prospettiva di richiesta del suicidio assistito».
L’edizione 81 del Festival del cinema di Venezia si è conclusa da pochi giorni e il Leone d’oro, il premio più importante, è andato a The room next door, di Pedro Almodóvar. Al centro della storia ci sono Ingrid e Martha, due amiche di vecchia data che si ritrovano dopo tanti anni in una circostanza drammatica: una delle due, ormai malata da tempo, ha scelto di porre fine alla sua sofferenza e chiede all’altra di accompagnarla in questo percorso. Intervistato dal Gazzettino, il presidente Luca Zaia ha elogiato la pellicola aggiungendo la necessità di adottare una legge sul fine vita e sottolineando che le cure palliativa sono «un alibi...perché c’è chi le rifiuta, non le vuole». Cosa ne pensa? «È importante fare chiarezza: cosa sono le cure palliative e la buona cura del dolore? Dolore che non è solo fisico, ma anche sofferenza psicologica e spirituale. Le cure palliative non sono un alibi, ma una buona medicina, sicuramente da potenziare, per chi soffre e per un malato davanti al dolore. Il Veneto ha un’ottima rete di cure palliative mediche grazie a medici, infermieri, psicologi che si dedicano completamente. Se il paziente non ha dolore, questo è ben controllato, è seguito dall’equipe e non è solo, se ha accanto la famiglia anch’essa aiutata, se può in determinate condizioni morire nella propria abitazione, allora non si comprende perché sia un alibi e che senso ha che rifiuti le cure. Perché così soffrirebbe e potrebbe chiedere il suicidio assistito? È un paradosso. Se uno è stanco di vivere, e qui entriamo in un campo esistenziale e sociale, non vuol dire che il Servizio sanitario o la stessa società aiuteranno a suicidarsi, ma faranno tutto il possibile per aiutarlo a vivere, accettando i misteri della libertà umana. Il Servizio sanitario lancerà sempre il messaggio dell’assistere, del vivere anche gli ultimi istanti, si fermerà solo dinanzi a un rifiuto, ma garantirà sempre la presenza, il sollievo e il buon accompagnamento. I medici che hanno seguito migliaia di pazienti con le cure palliative, mi dicono che è rarissimo che si arrivi a chiedere un aiuto a morire».
A inizio agosto proprio in Spagna, dove vige la legge sull’eutanasia, ha creato un precedente la storia di una giovane di 23 anni, paralizzata dal 2022 dopo un tentativo di suicidio, che ha ottenuto di poter morire, ma la sua famiglia ha fatto ricorso per fermare la procedura sostenendo che la figlia non era del tutto padrona di sé. Il tribunale, per la prima volta, ha chiesto e ottenuto la momentanea sospensione per “fare chiarezza”… «I casi clinici vanno presi con prudenza, bisogna conoscere i vari elementi e approcciarsi sempre con grande rispetto. Il caso in Spagna è analogo ad alcuni casi vissuti in quei pochi Paesi dove l’eutanasia è legale. È il tema della volontà, che diventa estremamente delicato soprattutto davanti a problemi psicologici o psichiatrici, quando subentra una depressione più o meno grave, o quando ci sono contesti familiari o sociali che quasi spingono il paziente a farlo sentire un peso. La questione psicologica solleva particolari problemi, il tribunale interviene domandandosi “siamo sicuri che stiamo dinanzi a una vera volontà o c’è dell’altro?». Cosa fa la società accanto all’individuo per non farlo sentire appunto un “peso”? Va trasmesso il messaggio del valore della vita pur accettando i limiti della condizione umana, della medicina stessa e anche della volontà del soggetto di fermarsi. Ma è diverso partecipare al causare la morte di un paziente. Il valore della vita è sempre un bene di tutti e ci sarà sempre un approccio per garantirla e proteggerla».