Gli scontri studenti-polizia al Bo. Chiudere i rapporti tra università non sembra una buona idea
Le immagini che martedì pomeriggio – proprio nei minuti di mandare in stampa questo numero de La Difesa – ci giungevano da palazzo Bo, la storica sede dell’Università di Padova, non non ci sono piaciute per niente.
Ogni volta che una manifestazione di piazza si tinge dell’azzurro dei caschi dei poliziotti in tenuta antisommossa significa che c’è qualcosa (molto?) che non va. Gli studenti padovani hanno fatto loro la posizione di molti altri universitari italiani: l’ateneo non partecipi al bando Maeci e in generale metta fine alle collaborazioni aperte con le università israeliane specialmente nei campi in cui si può giungere a tecnologie “dual use”, cioè dal possibile utilizzo industriale e civile, ma anche militare, con potenziale aggravamento della già tremenda situazione in cui versa la popolazione nella Striscia di Gaza.
La posizione studentesca, come d’altronde ogni posizione ragionata, tanto più che alla base pone l’idea di arrivare a uno stop ai combattimenti, è assai rispettabile. L’assalto al rettorato, dove in quei momenti era in corso la seduta del Senato accademico chiamato a decidere proprio su questi punti, per nulla. Anzi l’idea che per manifestare occorra assaltare, agire la forza, soverchiare le procedure istituzionali rischia di infrangere anche le più buone delle intenzioni. Per un curioso parallelo, questi fatti e questo editoriale, avviene a una settimana dall’intervento di una giovanissima di Ultima generazione durante la messa pasquale del vescovo Claudio, con relativa nostra riflessione. Ecco, c’è una notevole differenza tra l’inginocchiarsi in chiesa – anche se l’interruzione di un rito rimane un fatto serio che potrebbe comunque offendere la sensibilità di un partecipante – e assaltare un palazzo venendo alle mani con le forze di polizia.
Per tornare al merito della questione, rimane comunque aperta la discussione sull’opportunità o meno di chiudere le relazioni tra centri di ricerca e didattica anche in situazioni diplomatiche critiche o di aperto conflitto. In un mondo che è tornato a erigere barriere come strumento (velleitario) di politica migratoria, rinunciare a strumenti potenti di dialogo e confronto quali sono gli atenei appare una scelta miope e autolesionista. Chiedere chiusura anziché apertura significa ingigantire il principale ostacolo verso un negoziato per la pace: la non conoscenza reciproca tra i fronti avversi e i loro alleati.
L’impressione generale, per rimanere al conflitto Israele-Hamas, è che le opinioni pubbliche occidentali (ma forse anche ampie porzioni delle classi dirigenti) non abbiano una sufficiente conoscenza della realtà, della storia, della cultura degli attori in campo. Proiettare la propria visione del mondo su ogni teatro di guerra, o situazione di tensione, significa minare fin dal principio le basi di un negoziato proficuo. Dunque, su quali strumenti puntare oltre alla politica per arrivare a una comprensione reciproca se non sulle università? E potremmo allargare il discorso all’arte e allo sport.
Com’è ovvio, reciprocità non significa affatto mettere da parte i propri valori per appiattirsi sulle necessità o le richieste altrui. Il dialogo è possibile anche di fronte a un no chiaro e irremovibile a tutto quanto può essere utilizzato in termini bellici. La chiusura, ogni tipo di chiusura, d’altronde è dannosa principalmente per le giovani generazioni. È di questi giorni l’evidenza di quanto sia divenuto per gli italiani under 30 studiare e lavorare a Londra: viene meno un’esperienza che per decenni ha consentito a ragazzi e ragazze di confrontarsi con un Paese e una cultura altri, imparando una lingua essenziale e iniziando a fare i conti per davvero con la vita. È anche in nome delle giovani generazioni che l’apertura e il dialogo rappresentano, oltre a un valore, anche una necessità. Accogliamo quindi con serietà le prese di posizione di chi è chiamato a prendere in mano le sorti del pianeta nell’arco di pochi anni, allarghiamo il diritto di tribuna di millennials e generazione Z a patto, ragazzi, di non venire alle mani. Anche questa è apertura.