Eleggere leader, non capi
La democrazia moderna ha un bisogno vitale di leader, ma di leader credibili personalmente e politicamente
La politica sembra sempre più una questione di leader. Difficile stabilire fino a che punto dipenda dalla comunicazione pubblica, dall’approccio dei media vecchi e nuovi che hanno la necessità di semplificare al massimo la loro narrazione, oppure se si tratti di un fenomeno che si è radicato nelle dinamiche politico-istituzionali. Verticalizzazione del potere, dicono gli studiosi della materia. Molto probabilmente sono vere entrambe le spiegazioni e si sostengono a vicenda. Il paradosso è che questo avviene in una fase storica in cui tutti si richiamano con grande enfasi al “popolo” e al sistema che a questo soggetto è collegato anche etimologicamente, la democrazia.
Chiariamo subito un punto: la democrazia moderna ha un bisogno vitale di leader, ma di leader credibili personalmente e politicamente. Ha bisogno che questi leader siano designati con procedure ragionevoli e libere, che siano oggetto di costante controllo da parte di assemblee elettive con autonoma legittimazione, che debbano sottostare a una serie di limiti definiti in modo giuridicamente vincolante e garantiti da organi indipendenti. Non basta eleggere un vertice politico a cui delegare tutto per un certo numero di anni. E’ un’idea che, sulla scorta di quanto avviene in regimi pseudo-democratici anche a noi vicini, si sta subdolamente insinuando anche in Paesi di storica e autentica consuetudine democratica, esposti al contagio ideologico delle autocrazie che si presentano forti sulla scena internazionale e al meno eclatante, ma insidioso fascino delle democrazie sedicenti illiberali. Senza arrivare a esiti estremi (che pure possono essere molto più vicini di quanto si pensi, come insegna l’esperienza Usa) e senza fare processi alle intenzioni, c’è un neologismo che esprime efficacemente questa tendenza: “capocrazia”. Lo ha coniato già nel 2017 un costituzionalista italiano, Michele Ainis, con riferimento soprattutto alla vita dei partiti. E’ una tentazione che corre in parallelo con la crisi della partecipazione politica. Eleggere un capo invece di un leader, infatti, può apparire comodo non solo a chi aspira a quel ruolo, ma anche agli stessi cittadini. Eleggiamo un capo e non pensiamoci più, insomma. Ma è quello di cui abbiamo veramente bisogno?
Il progetto governativo sul premierato introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio e questo è considerato dai proponenti, in particolare da Giorgia Meloni, un nucleo non negoziabile. Ma così com’è stato congegnato il meccanismo assomiglia più all’elezione di un capo che a quella di un leader di governo. Si sarebbero potuti perseguire con altri strumenti gli obiettivi largamente condivisi di governabilità e stabilità, senza penalizzare ulteriormente il Parlamento che in una logica di pesi e contrappesi andrebbe invece rafforzato.
Il progetto riprende in questi giorni il suo iter alla Camera con le audizioni di costituzionalisti ed esperti di varie discipline. I nodi ancora da sciogliere sono di rilevanza cruciale e lo sostengono anche studiosi non pregiudizialmente contrari. Il Senato ha già dato il suo via libera, ma trattandosi di revisione costituzionale occorreranno due deliberazioni conformi da parte di entrambi i rami del Parlamento. Delle quattro letture previste, la seconda lettura è quella decisiva per eventuali modifiche: nella terza e quarta deliberazione non sono ammessi emendamenti e se a Montecitorio venisse approvato un testo identico a quello di Palazzo Madama il referendum finale diventerebbe inevitabile più di quanto non sembri già ora. Sarebbe uno scontro campale su una materia – quella costituzionale – che invece richiederebbe dialogo e ponderazione.