Dalle aree interne può nascere un nuovo modo di essere parrocchia
Ci sarà ancora la messa delle 8.30? E, quando morirò, ci sarà un prete che mi fa il funerale, o finirò direttamente in camposanto? E se vorrò andare a pregare in chiesa, avrò ancora il prete che la apre e la chiude ogni giorno? E se ci sarà la messa in ricordo degli alpini, la IV domenica di luglio, chi verrà e celebrarla, se adesso il prete non vive più in paese, come una volta?
Sono solo alcune, delle tante, domande, che potrebbero far sorridere, nel leggerle, ma che, invece, iniziano ad essere diffuse nella nostra, nelle nostre diocesi, nei nostri paesi e parrocchie dove… quello che era un modo di vivere la fede fino a qualche tempo fa, ora… non lo è più! L’interessante convegno organizzato dal Centro di orientamento pastorale della Cei (Cop) nel seminario arcivescovile di Lucca (chiuso da un paio d’anni, anch’esso) tra il 26 e il 28 giugno ha dato la possibilità di riflettere, ascoltare testimonianze e accogliere spunti in merito alla futura organizzazione dei paesi di montagna, ma anche a quelle piccole realtà che non hanno (o non avranno più) un prete residente. È stato interessante poter scambiare più di qualche idea, con vari preti di tutta Italia, coinvolti tutti nella pastorale e in questo cambiamento d’epoca che tocca da vicino le realtà e il modo stesso di intendere e vivere la fede. Situazioni chiare come il calo di preti, l’impoverimento demografico e l’invecchiamento, l’esculturazione, la territorialità non paesana, la necessità di una nuova evangelizzazione, portano a dover fare delle scelte proprio perché, rendendoci conto di dove siamo, si possano trovare percorsi adatti e in sintonia con l’«oggi» che viviamo. Vale la pena puntare sulla concentrazione o sulla prossimità? È cioè preferibile percorrere il percorso della centralizzazione, intesa come qualità-novità, o della dispersione, intesa anche come vicinanza-conservazione? Sembra che la prima possa favorire di più dei poli ecclesiali, come la centralità territoriale, il coraggio di lettura del territorio, l’ormai avanzato e indispensabile uso della tecnologia, un’aggregazione che può diventare più significativa. Insomma, se c’è da pensare ad un futuro di fede per la montagna… le speranze ci sono, e sono ancora tante, certamente creando alleanze sempre più fondamentali: con la scuola, creando una cultura orientata al rimanere dove si vive, con le istituzioni, promuovendo servizi sufficienti e diffusi, con le associazioni, formando una comunità solidale, e con le aziende, curando la formazione dei giovani e favorendo loro opportunità. Significativa la lettera alla parrocchia scritta dal presidente del Cop, mons. Domenico Sigalini: «Cara parrocchia di “nessuno”, finalmente si sono accorti che ci siamo anche noi! Abbiamo saputo di essere una parrocchia delle aree interne. Si, siamo a mezza montagna, non ci sono ancora state frane e possiamo andare a lavorare tutti i giorni un poco più in giù. Qui siamo rimasti in pochi; un po’ di case e di fienili e stalle e una bella chiesa col campanile; sono marito di una splendida sposa, abbiamo tre bambini e ci sono altre due o tre famiglie giovani, non ancora ben definite, e ci troviamo spesso. Ai nostri tre figli insegniamo le preghiere, siamo contenti di essere sposati perché quando eravamo fidanzati abbiamo fatto una bella esperienza di preparazione al matrimonio, giù in valle con altre giovani coppie.[...]. Abbiamo dovuto noi raccontare loro qualche bella parabola del vangelo, perché a scuola non dicono loro niente di questo. È il nostro catechismo per aiutarli a credere in Dio e innamorarsi di Gesù, perché voi vi siete fatti vedere una volta o due e poi siete spariti del tutto. [...] Avete fiducia che noi possiamo essere una piccola chiesa? Siamo tutti battezzati, io e mia moglie siamo cresimati, sposati; viviamo i sacramenti, l’unzione degli infermi è meglio lasciarla ad altri tempi. Non siamo già una piccola chiesa? Se ci portate qualche volta l’Eucaristia con una messa possiamo fare pure i missionari con i nostri amici. E fare qualche festa religiosa con i compagni di lavoro che passerebbero volentieri qualche serata da noi. Hanno mica cominciato così anche i primi cristiani?». Anche a partire da essa, mi permetto qualche input che magari, in montagna, ma anche nelle realtà più “interne” potrà essere utile: non si potrà pensare a una catechesi che, invece di essere fatta solo in parrocchia, viene organizzata e strutturata assieme a tutte le agenzie educative dei ragazzi e dei giovani? Si potrà pensare che oltre alla messa potranno esserci altri modi “feriali” per esplicitare la propria vita di cristiani, facendo meno da spettatori, e più attori e protagonisti attivi? Non sarà forse più missionario abitare spazi di quotidianità delle persone (luoghi di lavoro, piazze, bar, campi sportivi, centri musicali) piuttosto che la triade chiesa-canonica-sacrestia? Non sarà che la preghiera vissuta in famiglia, come coppia o coppie, assieme ai ragazzi, realizzerà spesso quei momenti iniziali, con cui la prima Chiesa è nata, con i primi apostoli, attraverso piccoli gruppi, efficaci, frizzanti, coraggiosi? Non sarà il caso che più di tante riunioni, incontri, si passi più tempo libero, gratuito, tra persone, gustandosi un po’ di più il mondo in cui viviamo, senza essere sempre di corsa, a discapito di relazioni profonde e più umanizzate? Info: centroorientamentopastorale.it
don Federico Fabris
Collaboratore Pastorale dell’Unità Pastorale di Piovene e Cappellano dell’Ospedale Civile di Asiago