Che succede se i giovani se ne vanno? L’ultima ricerca della Fondazione Nordest fa riflettere

C’è una domanda che attanaglia il rientro dalle vacanze di lavoratori, famiglie, organizzazioni, politici e dirigenti: per quale motivo i giovani stanno lasciando sempre più in fretta l’Italia e al contempo il nostro Paese non è in grado di attrarre pari età stranieri da inserire nel suo sistema produttivo? Come dite? 

Che succede se i giovani se ne vanno? L’ultima ricerca della Fondazione Nordest fa riflettere

Che questo argomento non compare affatto nel dibattito pubblico e che i dati drammatici pubblicati una settimana fa dalla Fondazione Nordest di fatto sono passati del tutto inosservati? Che l’attenzione della nostra classe politica è (ancora una volta) alla riforma delle pensioni, al referendum per abrogare l’autonomia, alle scaramucce velleitarie che utilizzano temi centrali (come lo ius scholae) semplicemente per misurarsi, smarcarsi, accordarsi in chiave di puro consenso elettorale e non per dare a questo Paese l’abbrivio verso uno sviluppo possibile? Purtroppo avete perfettamente ragione. Ma l’esodo dei giovani – certificato dai ricercatori Silvia Oliva e Gianluca Toschi nella ricerca I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero. Propensione e motivazione, che la Fondazione ha curato con il supporto della Regione Veneto – combinato con la crisi demografica in atto da anni, rischia seriamente di compromettere il futuro economico e sociale dell’Italia: tutto ciò dovrebbe spingere molti temi molto più in basso negli elenchi delle priorità di tutta la classe dirigente, non solo di quella politica. Il volume (disponibile in tutte le librerie) prende in considerazione il decennio 2011-2021: se all’inizio del periodo gli italiani a partire erano 50 mila all’anno, alla fine erano più del doppio, 120 mila, e il trend è subito ripreso nel 2022, una volta superato il Covid. Nello stesso lasso di tempo sono partiti 450 mila giovani 18-34enni, il 5 per cento del totale, e le regioni con più emigrati sono, attenzione, quelle del Nord, quelle che in una narrazione che probabilmente ha fatto il suo tempo si sono sempre descritte al passo (o un passo avanti) rispetto ai bacini europei più avanzati. Sono 124 mila i “nordovestini” espatriati, 91 mila i “nordestini” e se nel 2011 il 43 per cento erano 30-34enni, ora uno su quattro è studente e uno su due è un laureato 25-29enne, pronto a produrre ricchezza oltre confine dopo essersi formato nelle migliori università del Belpaese. Cosa cercano i nuovi expat? Più soldi. Salari adeguati ai lavori che sono in grado di svolgere. E anche più responsabilità, più riconoscimento delle competenze che esprimono dopo lunghe trafile scolastico-formative che alle nostre latitudini procurano spesso stage gratuiti, contratti di pochi mesi e spesso mal retribuiti. La qualità della vita e l’offerta culturale che si trovano qui sono un plus che i giovani riconoscono, ma alla fine in molti se ne vanno cercando meritocrazia e opportunità. Non è un caso se solo il 33,6 per cento dei rimasti vede un futuro promettente davanti a sé, mentre tra gli emigrati la percentuale sale al 67,3 per cento. “Italia, abbiamo un problema”, si potrebbe dire, citando lo sfortunato pilota della missione lunare Apollo 13. Gli effetti della scarsità dei salari si nota anche in questa estate di boom turistico nei nostri lidi. Boom per gli stranieri, ma gli italiani? Stando al Sole 24 ore le loro presenze sono in calo, anche in doppia cifra in alcuni contesti, per esempio Napoli (meno 20 per cento), Agrigento (meno 25 per cento) e la Liguria (meno 5 per cento). Si sconta l’onda lunga dell’inflazione, il potere d’acquisto delle famiglie viene falcidiato dall’aumento dei prezzi a cui non seguono mai contrazioni significative. C’è chi parla esplicitamente di rischio default per turismo e ristorazione: d’altronde uscire a cena significa spendere ormai almeno 20 euro a testa, se moltiplichiamo per i componenti di un nucleo si comprende che ristoranti e pizzerie sono diventati luoghi per chi ha uno stipendio a tre cifre e con un due davanti. La domanda è: un sistema produttivo basato sulle piccole medie imprese, che ci hanno arricchito a partire dagli anni Settanta, è ancora adeguato ad affrontare il futuro oppure occorre pensare ad altro?

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