Parrocchia: cassonetto e magazzino. Riflettiamo
Domenica 11 marzo abbiamo “traslocato” la Caritas di Vigonza. Il gruppo ha bisogni di spazi per il banco di alimenti e i tanti vestiti che la gente “smercia” davanti alla porta e che tante volontarie cerniscono, piegano, classificano.
Cercando una sede più consona finalmente abbiamo scelto la migliore possibilità e dal vecchio patronato senza servizi e riscaldamento abbiamo adocchiato il piano interrato del nuovo patronato.
Il problema era svuotare il magazzino (peraltro enorme!) da tutto ciò che negli anni lì si era accumulato. Ne è venuta fuori una bella giornata con trenta persone che han risposto all’avviso in chiesa di venire a sudare per la carità. In due ore abbiamo riempito un cassone enorme di cose vecchie da buttar via (mobili, sedie rotte, scatoloni, attaccapanni...), la sacrestia (candelabri, aste con labari dell’Azione cattolica, croci astili ossidate, statue di presepi, quadri, anche pissidi!), il sottoscala (mattonelle e marmi di scorta), l’archivio (cassette di documenti parrocchiali degli anni ’60 e ’70, persi chissà come li sotto), il garage (le cose della sagra).
Ecco... stimolato dall’esperienza di “pulizie di primavera” mi sono domandato: cosa c’è da buttar via in parrocchia per fare spazio e ordine ad altro? E cosa è da tenere perché ci serve? Scrivo tre cose molto incomplete, come inizio di riflessione.
Mi piacerebbe “buttare” la mentalità della parrocchia come centro che eroga servizi: messe per defunti, battesimi, matrimoni nei tempi determinati da ristoranti e fotografi, funerali, grest, scuole dell’infanzia, campi da pallone, costicine.
Spesso sembra un gran “supermercato di servizi religiosi”. Resti beninteso che non voglio buttare le messe, i sacramenti o le altre cose che facciamo, ma la mentalità di chi pensa di pagare (denari o tempo) e pretende di avere.
Vorrei tenere e rafforzare molto il senso di comunità e famiglia, la fraternità, il gusto di conoscersi e stare insieme, legami e vincoli da rendere sempre più significativi, l’apertura e accoglienza all’altro (fratelli e sorelle di altre parrocchie, città, nazioni, idee...). Il “sentirsi di casa” in parrocchia dipende dal modo di relazionarsi delle persone, non dai servizi “offerti”.
Mi piacerebbe “buttare” la mentalità che delega agli altri: al parroco, a quelli del consiglio pastorale, quelli del gruppo Caritas o catechisti, a quelli... Per alcuni servizi molti sanno dirti chi non va bene, ma pochi si rendono disponibili!
Vorrei tenere la “partecipazione” cioè il sentirsi parte e corresponsabili di questa cosa che chiamiamo “parrocchia”. L’atteggiamento di chi sente che il senso e il destino della comunità cristiana dipende anche da lui/lei, e non solo dagli altri.
Chi capisce che la parrocchia è nostra e per salvare (cioè amare) il mondo.
Mi piacerebbe “buttare” il guardarci quasi solo l’ombelico, l’orizzonte ristretto di chi spende un sacco di energie per guardarsi dentro (parrocchia).
Vorrei tenere lo sguardo verso l’alto (al Dio di Gesù crocifisso e risorto) e davanti (il mondo, la politica, l’economia, l’educazione, il “sociale”, l’ecologia...) e in basso (i poveri!)
E voi cosa buttereste e cosa terreste? E poi ci servono dei begli scaffali! Per mettere in ordine e in vista le cose. Un po’ di struttura è fondamentale! Ma di questo parleremo la prossima volta.