Gettiamo la Parola, da sola porterà frutto
Paolo ad Atene: il suo più bel discorso, ma ha (quasi) fallito. Perché è importante andare oltre i risultati apparenti.
Nelle ultime settimane sto leggendo un libro del card. Martini che ha quasi la mia età; sono le trascrizioni di un corso di esercizi tenuto nel 1974 sul tema/titolo L’itinerario spirituale dei Dodici nel Vangelo di Marco. Mi stupisce sempre come le sue riflessioni, a più di quarant’anni di distanza, siano ancora così attuali.
Meditando sulle parabole del capitolo quarto di Marco, per esempio, comincia con alcune domande che possiamo farci dal punto di vista personale:
«Perché dopo tanti anni di vita ascetica, di impegno, di preghiera, di meditazione, siamo sempre gli stessi, con gli stessi piccoli difetti, con le stesse piccole difficoltà, quasi fossimo agli inizi della vita spirituale? Perché la Parola di Dio non ci ha trasformato?». E poi, pensando alla Chiesa e al mondo in cui viviamo, ci possiamo chiedere: «Perché il Vangelo non cambia il mondo? (…) Perché non c’è corrispondenza tra la Parola bene annunciata e la rispondenza della gente?».
La risposta viene dalla parabola del seminatore, in cui non tutti i terreni producono frutto. «La Parola di Dio – commenta Martini – non fa frutto automaticamente»; perché il frutto «non dipende solo dalla Parola, dipende anche dalle diverse situazioni del terreno, dalle diverse risposte (…).
Esso è un mistero di dialogo in cui viene fatta una proposta che può essere accettata o trascurata e appena considerata o respinta (…). Il Regno di Dio va avanti attraverso questa umile proposta (…) e gli apostoli devono vivere con Gesù questo mistero dell’umiltà del Regno».
Non mi sono dimenticato che stiamo seguendo un percorso attraverso gli Atti degli apostoli; è che trovo la stessa logica (di umiltà e fiducia) quando leggo il discorso che Paolo ha tenuto ad Atene (cfr. At 17,16-34). Giunto in città, annunciava Gesù risorto nella piazza principale, la famosa agorà; alcuni filosofi allora lo prendono in disparte e gli dicono che vogliono conoscere meglio la sua dottrina e Paolo coglie l’occasione al volo.
Bisogna dire, leggendo il testo degli Atti, che ha fatto un discorso molto colto, pronunciato con uno stile elevato, in cui è riuscito a presentare la verità della fede con i termini più vicini possibile al mondo filosofico di cui i suoi ascoltatori erano rappresentanti. Dal punto di vista dello stile è il più bel discorso di Paolo; eppure è stato quasi un fallimento: pochissimi hanno creduto, molti se ne sono andati deridendolo, alcuni con garbo gli hanno detto «su questo ti sentiremo un’altra volta», che è quello che diciamo noi quando non vogliamo dare due euro a qualcuno che chiede l’elemosina.
L’evangelista Luca, che è l’autore degli Atti, poteva fare a meno di raccontare questo passaggio a vuoto (o quasi) nell’attività missionaria di Paolo; e invece non solo lo ha riportato, ma si è anche impegnato a scriverlo con uno stile molto elaborato (e in un greco abbastanza difficile…). Perché ci ricorda una dimensione essenziale del nostro annuncio: non dobbiamo essere schiavi dei risultati, non ci diamo da fare per avere una medaglia in più da aggiungere alla bacheca dei successi.
Annunciamo il Vangelo perché sappiamo che può portare frutto; non conta quanto. «Buttatela quindi con coraggio – scrive ancora Martini – non tenetevi indietro dicendo che il terreno non va e bisogna aspettare condizioni migliori, non crediate di essere voi i padroni della Parola. Voi gettatela e poi», come ha Gesù detto in un’altra parabola, «andate pure a dormire; non pensateci più, ed essa da sola porterà frutto». Perché è Parola di Dio; e noi siamo soltanto suoi servitori.