Parrocchie, fontane a cui attingere quella vita che solo Gesù dona

Mentre le agende, personali e parrocchiali, si riempiono... rischia di restare inevaso il desiderio di Dio. Eppure i giovani ce l'hanno...

Parrocchie, fontane a cui attingere quella vita che solo Gesù dona

Dopo aver letto il terzo capitolo del testo finale del Sinodo dei giovani, in cui i giovani chiedono di «essere stimolati e aiutati nella nostra ricerca, con strumenti adeguati per la nostra crescita spirituale», un parroco chiede ai propri ragazzi se condividono queste righe, se davvero avvertono una “sete di Dio” nei termini espressi dai 160 giovani dell’assemblea sinodale che hanno scritto questo testo.

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Silenzio imbarazzato. Poi una ragazza prende coraggio e dice: «Sì, don. Ma sappiamo che qui in parrocchia non troviamo quello di cui abbiamo bisogno». Ora il silenzio si fa ancora più palpabile e servirebbe un “cambiamo argomento”, come quando al telegiornale si passa dalla tragedia di una sparatoria in pieno giorno alla nascita del royal baby.

Sento l’uscita di quella ragazza come una bella provocazione, anche se espressa con lo stile tagliente e poco diplomatico che solo i ventenni hanno. Ogni prete, ogni consiglio pastorale, ogni cristiano metterebbe la firma sul fatto che le nostre parrocchie sono chiamate prima di tutto a essere delle case e scuole di preghiera, “fontane del villaggio” a cui tutti possono attingere quella Vita che solo Gesù, tramite il suo Vangelo e i sacramenti, può donare.

Purtroppo però le agende, parrocchiali e personali, si riempiono spesso di tanto altro e il desiderio di Dio rischia di restare inevaso; rischia così di spegnersi o di essere riempito da tanti altri surrogati: ci si accontenta del caffè annacquato quando invece potremmo prendere a piene mani da una ricca tradizione che la Chiesa cura e tramanda da secoli. Altre volte si concentra tutto sulla messa domenicale – certamente fondamentale – ma, come scrivono i giovani, «sentiamo che il Signore ci chiama a una relazione forte e significativa con Lui ma ci manca un’adeguata educazione alla preghiera personale e – nonostante alcune proposte che troviamo nei percorsi esistenti – in tanti ci sentiamo lasciati soli per un cammino spirituale che possa farci incontrare il Signore e nutrirci nel quotidiano» (3,4). Infine, si rischia di delegare il tutto ad altri: Assisi, Taizé, Bose, Romena (peraltro ottime proposte!).

Io e i miei fratelli abbiamo imparato a pregare dalla nostra mamma, che ci faceva dire le preghiere prima di andare a dormire e ci ricordava di pregare dopo averci augurato una buona giornata di scuola. È stato un inizio, a cui poi hanno contribuito tanti altri volti di preti ed educatori negli anni successivi. Oggi vedo che sempre meno c’è l’abitudine a pregare nel quotidiano; c’è un preoccupante analfabetismo alla preghiera che parte dalla famiglia e a cui i percorsi di catechesi, come scrivono i giovani, non sembrano rispondere. Spesso la preghiera viene vista come qualcosa di mnemonico e pappagallesco. Frequentemente “messa” e “preghiera” diventano brutti spettri, dei sinonimi per cui a volte nei campiscuola i ragazzi dicono che sono andati a messa due volte al giorno perché hanno pregato al mattino e alla sera! 
Abbiamo davanti una bella sfida con i giovani. Ma il terreno è promettente e disponibile. Si tratta di prepararlo con il gusto del silenzio e la sensibilità alla bellezza che sorprende e meraviglia. Si tratta di abbeverarlo con la parola di Dio che, adeguatamente spiegata e proposta, diventa luce che illumina la strada dove camminano. Si tratta di curarlo con una preghiera che coinvolta tutta la persona: testa, affetti, corpo. Che metta insieme personale e comunitario. Che davvero apra al mistero. E dove anch’io, come prete, sparisco per far agevolare l’incontro col Padre.

Il più grande complimento che posso ricevere come prete non è quando mi dicono “bella riflessione!”, ma quando mi dicono “grazie perché mi hai aiutato a pregare!”.

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