Cisgiordania. Hebron, la vita intrappolata

Nella più grande città della Cisgiordania, quasi tutti i cittadini sono palestinesi. Ma l’esercito israeliano controlla il centro inaccessibile e l’esistenza dei civili

Cisgiordania. Hebron, la vita intrappolata

«I o non so cosa sia la paura. Sono nato e cresciuto nella Città vecchia. So di essere più forte degli israeliani, i soldati
non sono forti, le loro armi lo sono. Non ho paura». Camminando per le viuzze più antiche di Hebron, Hassan dà sfogo
ai suoi pensieri, quelli di un ventitreenne palestinese che vive in una città militarmente occupata. Un caso particolare quello di Hebron, perché nel resto della Cisgiordania “controllata” dall’Autorità nazionale palestinese gli insediamenti israeliani sono degli agglomerati di abitazioni fuori dai centri urbani, sorti sui terreni di campagna espropriati e sulle macerie dei piccoli villaggi, che sono stati spazzati via a suon di sfratti, demolizioni, raid militari e attacchi da parte
dei coloni armati. Una prassi consolidatasi nei decenni e che oggi per esempio sta colpendo le colline meridionali del governatorato di Hebron, zona difficilmente accessibile anche per Ong e aiuti umanitari. Invece ad al-Khalil, che è il nome arabo di Hebron, gli insediamenti sono in pieno centro.

La mappa di questa città è un’intricata maglia, definita nel Protocollo di Hebron del 1997, distinta in due macro-aree: H1 e H2. La prima è amministrata, formalmente anche per quanto riguarda la sicurezza, dall’Autorità nazionale palestinese. La realtà è che anche qui le incursioni dei militari israeliani che eseguono arresti irrompendo nelle case palestinesi in piena notte e che si danno al lancio di bombe sonore contro i ragazzini sono all’ordine del giorno. La seconda zona, H2, costituisce il 20 per cento della città ed è sotto il totale controllo israeliano. Una morsa militare invasiva e onnipresente: 21 checkpoint aperti o chiusi arbitrariamente dai militari blindano ogni entrata nell’area, stazioni di guardia militari e della polizia lungo le strade e attorno agli edifici in cui abitano gli israeliani insediati, aerei che sorvolano la città monitorando dall’alto i movimenti degli abitanti, i quali camminano per strade già di per sé tappezzate di telecamere. H2 è la zona in cui abitano circa 700 coloni e 33 mila palestinesi. «Per i palestinesi lì è come se vigesse la legge marziale, per i coloni no» commenta Badee Dwaik, presidente e fondatore di Human Rights Defenders, il gruppo di attivisti che porta all’attenzione internazionale gli episodi di violenza da parte di militari e coloni attraverso il progetto “Capturing occupation camera project”.

Secondo Dwaik la prima forma di resistenza per i palestinesi è decidere di non andarsene, anche se questo significa far fronte alle violenze e alle umiliazioni che accadono quotidianamente e rifiutare le proposte d’acquisto che valgono milioni. «La prima questione è la terra, poi si può parlare di Stati: uno, due… ma prima di tutto dobbiamo tenerci la terra» aggiunge Badee Dwaik.

Quella che appare una scissione territoriale “netta” tra le due zone, basata sul “principio di separazione” che instaura un regime di segregazione, è in realtà una frammentazione articolata e complessa. Secondo l’Ong israeliana B’Tselem sono 64 i siti e le strade a cui, in pieno centro città in H2, ai palestinesi è vietato o limitato l’accesso. «La vita qui è difficile» commenta Ibrahim, venditore ambulante in H1 e residente in H2. Lo dice mentre percorre la stradina sterrata che porta a casa sua e che attraversa un terreno in cui si intrecciano le radici di decine di ulivi millenari, diminuiti di qualche unità da quando i coloni israeliani insediati li hanno presi di mira appiccandovi fuoco. Quel sentiero per lui è l’unica via disponibile per rientrare a casa e per recarsi al cimitero islamico che si affaccia su al-Shuahada street, un tempo arteria della città e ora invece zona off-limits. Le tre decine di migliaia di palestinesi che abitano in H2, infatti, non possono percorrere questa via principale, né a piedi né con mezzi, e i loro negozi situati in essa sono stati tutti chiusi, facendo di quella che un tempo era il fulcro della vita commerciale della città una strada spettrale. Camminandovi si intravedono solamente stazioni di controllo ogni centinaio di metri, soldati appostati sui tetti degli edifici, veicoli militari e auto della polizia che sfrecciano frequenti, qualche automobile di coloni e autobus israeliani che si dirigono verso la Tomba dei patriarchi o verso le tangenziali e autostrade che collegano questa colonia alle altre e alla “madrepatria”. Ogni protesta in Palestina si ripercuote anche a Hebron con una presa a tenaglia da parte dei militari contro i civili, che si aggiunge alle ripetute e impunite violenze perpetrate dai coloni residenti nell’area. Così indipendentemente dal fatto che lo si faccia pacificamente o armati, che si usino armi o pietre, manifestare per i palestinesi significa andare incontro a militari che rispondono premendo il grilletto. Nel 2022 queste dinamiche hanno provocato la morte per mano dei soldati di un ventinovenne lo scorso aprile e di un diciassettenne ad agosto durante alcune manifestazioni. Ma è da decenni che uccisioni come queste si susseguono.

Francesca Campanini
da Hebron

Sei ex soldati israeliani si raccontano

Il 16 novembre 2021, il team Op-Docs Times Opinion del New York Times ha pubblicato cortometraggio documentario Mission: Hebron del regista Rona Segal. Come mai avvenuto in passato, sei ex soldati israeliani raccontano la loro
esperienza nella città di Hebron, gli ordini che ricevono, le umiliazioni a cui sottopongono i palestinesi spesso senza
una ragione. In pratica, esercitano un alto grado di autorità sulla vita e gli spostamenti dei civili palestinesi attraverso l’uso di posti di blocco, perquisizioni casuali, programmi di riconoscimento facciale e altri meccanismi. Il documentario è visibile al link www.nytimes.com/column/op-docs

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