Parrocchie senza preti. "Il futuro è fatto di fiducia e creatività". Facciamo il punto con don Leopoldo Voltan, vicario per la pastorale
Don Leopoldo Voltan su una "chiesa senza preti". Il punto della situazione a Padova. "Penso che un approccio libero e disinteressato su tutti questi temi da parte della Chiesa, a partire dalle parrocchie, sia davvero missionario e spirituale. Se puntiamo all’autoconservazione non siamo evangelici".
Che Chiesa sarà una “Chiesa senza preti?”. La domanda che il Centro di orientamento pastorale (Cop) ha messo al centro della sua settimana di aggiornamento non ha una risposta chiara. Anzi, apre molti scenari su cui la Diocesi di Padova è al lavoro da tempo.
I numeri – riportati anche nelle infografiche sopra – confermano il calo. Dal 2010 abbiamo perso 124 preti: erano 755 allora, sono 631 oggi. Impegnato in pastorale, quindi nelle parrocchie e in attività legate direttamente all’annuncio del Vangelo, è il 50 per cento, vale a dire un numero (315) ben inferiore a quello delle 459 parrocchie. Con don Leopoldo Voltan, vicario per la pastorale della nostra Chiesa, proviamo a mettere a fuoco quali potrebbero essere i risvolti di questa situazione.
«In effetti questo tempo di cambiamenti sociali accelerati preoccupa un po’, ma c’è una riserva grande di creatività e fiducia nel guardare in avanti: questo tempo rappresenta una sfida. I nostri preti diocesani sono di grande qualità, di fedeltà e vicinanza alla gente e cura per la propria formazione. Hanno la capacità di vivere questo tempo inedito. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, spesso sono proprio i preti anziani, avendo attraversato varie stagioni di vita e di chiesa, i più saggi e liberi interiormente nell’interpretare questa stagione».
Quanto questo influisce sui processi di rinnovamento della pastorale?
«Siamo in una fase di ricerca. Una pastorale generativa, in grado di rispondere alle esigenze del nostro tempo, rappresenta un grande desiderio. È interessante la prospettiva illustrata del teologo franco-tedesco Christoph Theobald nel suo Urgenze pastorali: la sua teoria del “treppiede” racconta l’interesse di partire dal Vangelo che sempre sorprende, senza però rinunciare a leggere a fondo il contesto sociale, che è il luogo in cui il vangelo è accoglibile e ricevibile. Pensando infine alla forma di chiesa che ne deriva. Il rischio infatti è sbilanciarsi su quest'ultimo aspetto, mentre è necessario un doppio decentramento sul Vangelo e sul mondo, per ascoltarlo e servirlo. Sono fiducioso guardando avanti: non solo i preti ma anche i credenti padovani hanno l’intelligenza e la duttilità pastorale necessarie. Lavorano su di sé perché il cambiamento avvenga».
Periodicamente c’è chi prevede la fine della parrocchia. Da noi si discute molto sui gruppi di parrocchie…
«La parrocchia ha una riserva di senso e di significato che la fa rimanere centrale, anche se forse le domande esistenziali oggi suggeriscono di studiare anche altre vie per l’evangelizzazione. C’è una ricerca di spiritualità e di salvezza come senso del vivere che a volte trascende i confini, eppure la prospettiva parrocchiale, così connaturata alla nostra diocesi, va ancora messa al centro. Dei gruppi di parrocchie si è riflettuto nelle 130 comunità toccate nelle 17 tappe della visita pastorale compiute finora. Lo stesso vescovo Claudio chiede la pazienza della meditazione, senza arrivare subito a una scelta: uno scambio a partire dalla lettura del territorio è importante, anche se vanno mantenute coordinate storiche come il vicariato».
Al convegno del Cop si è parlato di di laici e famiglie alla guida delle comunità. Che ne pensi?
«Il messaggio di laici che si prendono cura della vita parrocchiale sta passando. Si parla di modello “de-clericalizzato”. Ma questo non significa che i preti perdano valore, anzi. Il ministero ordinato rimane essenziale. Semmai vengono valorizzati i carismi già presenti nella comunità, oltre al valore del dono dei sacramenti».
Questi laici daranno vita ai gruppi ministeriali?
«Nella nostra diocesi la riflessione è ancora acerba: da un lato gli organismi di comunione hanno iniziato a parlarne solo quest’anno, dall’altro le nostre parrocchie contano molte persone che di fatto già rivestono un ministero anche se non formalizzato. Quel che conta è la vocazione dei credenti: le persone devono rispondere a una chiamata, avere le caratteristiche giuste e acquisire le competenze necessarie, valorizzate da un mandato della Chiesa diocesana. Il gruppo ministeriale non è la soluzione a tutti i problemi, naturalmente, ma andiamo verso una visione di Chiesa più condivisa».
Queste sfide saranno l’occasione per la Chiesa di “interiorizzare” di più ciò che le persone vivono con maggior intensità nella loro vita, senza soffermarsi alle strutture organizzative?
«Ci sono istanze molto concrete; interrogativi sul senso profondo e la realizzazione dei desideri; e poi crisi molto interroganti. Penso alle grandi questioni relative alla visione di uomo che abbiamo: quali posizioni prendere di fronte alle bioscienze, alle neuroscienze, alle tecno-scienze? E poi la tenuta del legame sociale, il vivere insieme. Ancora: l’ambiente e l’ecologia. Penso che un approccio libero e disinteressato su tutti questi temi da parte della Chiesa, a partire dalle parrocchie, sia davvero missionario e spirituale. Se puntiamo all’autoconservazione non siamo evangelici. Al contrario i “cristici” – come Theobald definisce chi ha esperienza di Cristo – si impegnano a far fiorire una fede elementare negli altri, a partire dalla bellezza della vita altrui».