Oltre lo Sprar, la comunità. A Este, l'integrazione si fa in parrocchia
A Este l'integrazione dei richiedenti asilo funziona, grazie alla collaborazione tra lo Sprar e la parrocchia di Santa Tecla. Tanto che alcuni migranti sono diventati volontari: fanno manutenzioni in patronato e tengono aperto il bar. Uno di loro ha fatto l'aiuto cuoco al camposcuola e la polisportiva adesso ha anche una squadra africana. «L'integrazione non è soltanto avere un posto letto, ma una questione di relazioni» - afferma il parroco don Franco Rimano.
Integrare i richiedenti asilo e farli sentire parte della comunità è possibile. A testimoniarlo è la parrocchia Santa Tecla di Este, che da due anni tende la mano ai giovani africani che, una volta usciti dall’accoglienza Sprar, pur avendo un lavoro, faticano a trovare un alloggio. Non solo: i migranti vengono coinvolti nelle varie attività: c’è chi tiene aperto il bar del patronato Redentore, chi invece ha fatto l’aiuto cuoco al camposcuola, chi passa il sabato mattina a risistemare il patronato. Chi, infine, indossa la maglia della squadra africana Redentore Calcio, nata da qualche settimana e iscritta al Csi.
Cosa li accomuna? Sono scappati dai loro Paesi, hanno storie difficili alle spalle ma tanta voglia di costruirsi una nuova vita. Rispetto a questo sogno di rinascita, lo Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) aiuta i migranti a porre le basi per un’integrazione efficace che, oltre a vitto e alloggio, offra anche corsi di italiano e percorsi di inserimento lavorativo. La rete territoriale coinvolge i Comuni di Este, Baone e Solesino, per un totale di circa trenta posti disponibili. L’accoglienza, gestita dalle cooperative Villaggio Globale e Coges don Milani, dura dai sei mesi a un anno, poi serve una comunità che accolga i rifugiati per continuare a coltivare ciò che di buono è stato seminato.
«Molti ragazzi hanno trovato lavoro ma è difficile per loro ottenere un contratto d’affitto – spiega il vicario parrocchiale don Michele Majoni – Attualmente ne stiamo ospitando nove: quattro in un appartamento di nostra proprietà, tre in subaffitto e due nella foresteria del patronato». Ma l’integrazione «non è soltanto avere un posto letto – ricorda il parroco don Franco Rimano – riguarda anche e soprattutto le relazioni. Per questo coinvolgiamo i ragazzi in vari modi facendo leva sull’umanità che ci accomuna». A don Michele, che segue la pastorale giovanile, è venuto spontaneo proporre a questi ragazzi di frequentare il patronato: non tutti hanno accettato ma chi l’ha fatto è riuscito a entrare in una rete di relazioni che adesso lo fa sentire un po’ meno straniero.
«Come cristiani siamo chiamati ad andare oltre le etichette e gli stigmi – afferma don Michele – Quando nell’altro riconosciamo una persona proprio come noi, le barriere cadono». Così quelli che prima erano i “neri africani” diventano Alassane, Yusupha, Pateh. Ciascuno con un volto e una storia. I ragazzini delle medie lo hanno capito quest’estate al camposcuola grazie a Ibrahim, che ha 39 anni e ha lasciato in Costa d’Avorio la moglie e i tre figli. All’inizio restava in cucina a dare una mano ai fornelli, poi ha raccontato la sua storia. Alla pizzata di fine campo i ragazzi sono corsi ad abbracciarlo. «Questa è l’integrazione che funziona – afferma don Franco – speriamo che il progetto venga rinnovato (l’attuale bando scadrà a dicembre 2020, ndr) per continuare ad aiutare questi nostri fratelli».