Pochi matrimoni in Italia. Che sia colpa (anche) della chiesa?
Il demografo Roberto Volpi: «La responsabilità della chiesa è molto forte: dà del matrimonio una visione molto severa, difficile, pesante, lo carica di una complessità tale…». Idem per la vita di famiglia e il mestiere di genitore. In compenso, però, il matrimonio religioso è più stabile e duraturo. È dal 1975 che i matrimoni sono "in caduta libera". E il problema non è economico, ma culturale.
In Italia i tassi di separazione e di divorzio, in continua crescita dal 1995, hanno registrato per la prima volta una battuta d’arresto nel 2012. A rilevarlo è l’Istat, che segnala un altro dato: le nozze più stabili e durature sono quelle religiose, con 933 matrimoni su 1.000 che “resistono”, contro gli 880 su 1.000 celebrati con rito civile. Un’inversione di tendenza? Ne abbiamo parlato con il demografo Roberto Volpi.
In Italia diminuiscono, per la prima volta, separazioni e divorzi. Si può parlare di un’inversione di tendenza?
«Ancora non è chiaro. Le separazioni e i divorzi comportano un costo anche economico, tanto che in America vengono utilizzati come indicatori economici di prosperità. La prima valutazione dei dati Istat è che la diminuzione delle separazioni e dei divorzi sia un riflesso della crisi economica: tra l’altro, in termini di percentuali, stiamo parlando di una flessione lievissima, dello 0.6-0.7 per cento. È davvero presto per capire se si tratta davvero di un’inversione di tendenza, o quantomeno di una stabilizzazione di alcuni livelli più fisiologici. Si arriva a una certa stabilità dopo anni di crescita ininterrotta: se si tratterà davvero di un’inversione di tendenza, lo vedremo tra tre o quattro aumenti consecutivi negli anni».
Per l’Istat, i più stabili sono i matrimoni religiosi, che durano più a lungo.
«Quello che oggi rileva l’Istat è un fenomeno che io stesso ho più volte segnalato. Indubbiamente c’è una tenuta superiore del matrimonio religioso, che si può calcolare nei termini addirittura del doppio rispetto al matrimonio civile. Un margine ancora più ampio di quello evidenziato dall’Istat, che calcola la crisi media dei matrimoni intorno al settimo anno. Si tratta di un indicatore blando: la durata media è di quindici-sedici anni. È senz’altro vero che il matrimonio religioso dura di più, soprattutto se paragoniamo il primo matrimonio religioso con il primo matrimonio civile. Nel numero dei matrimoni civili, infatti, è incluso spesso un secondo matrimonio, dopo il divorzio: se depuriamo il confronto tra matrimonio civile e matrimonio religioso da quest’ultimo dato, il "successo" dei matrimoni religiosi risulta ancora più netto».
Matrimoni religiosi più duraturi, meno separazioni e divorzi: vuol dire che i “profeti di sventura”, quelli che dicono che ormai non ci si sposa più, vengono sonoramente smentiti?
«Si tratta di due fenomeni diversi. Il fatto che ci siano meno separazioni e divorzi e che il matrimonio religioso sia più stabile e duraturo non mette minimamente in discussione il dato principale: dati alla mano, in Italia il matrimonio è in crisi gravissima, e ancora di più il matrimonio religioso. Anche se ne viene contratto qualcuno in più, 210 mila invece che 204 mila, si tratta di un dato bassissimo. Il nostro tasso di nuzialità è pari al 3,3-3,4 ogni mille abitanti. Anche nell’Unione Europea i matrimoni continuano a diminuire, ma l’Italia è la Cenerentola da tanti anni. Quella del matrimonio è una crisi che non si ferma dal giorno del referendum sul divorzio: la prima caduta si è registrata nel 1975, un anno dopo».
Perché in Italia il matrimonio è in caduta libera?
«Molti osservatori pensano che sia per la questione economica, la crisi, la difficoltà a trovare lavoro. Sicuramente questi fattori c’entrano, ma non sono fattori decisivi: il tasso di nuzialità più basso, infatti, lo troviamo in Lombardia – e nemmeno da oggi – che di certo non è la regione d’Italia in cui manca di più il lavoro o c’è maggiore disoccupazione. Il matrimonio in Italia è in crisi indiscutibilmente per fattori culturali, e lo dimostrano molti indicatori, primo tra tutti la permanenza dei giovani nelle famiglie d’origine; un tratto comune ai paesi di area mediterranea, ma in Italia è un fenomeno cominciato prima, che è durato più lungo e ancora dura. C’è poi un tipico costume italiano: si fa famiglia solo quando ci sono condizioni particolari molto solide, quando "si ha tutto". Si vuole evitare qualsiasi rischio, e questo rallenta di molto i nostri ritmi. La responsabilità della chiesa è molto forte: dà del matrimonio una visione molto severa, difficile, pesante, lo carica di una complessità tale, per cui non c’è più la semplicità e la naturalezza. Fare famiglia è naturale: non c’è più questa idea, e la chiesa ha contribuito fortemente a farla scomparire, dando un’idea "grave" del matrimonio, della famiglia, del mestiere di genitori».
Il fatto che i matrimoni religiosi “tengano di più” non può invece prefigurare uno scenario di un’Italia in cui, magari, ci si sposa di meno, però più “convinti”?
«Il "però" mi sembra troppo consolatorio, considerando la vertigine della caduta dei matrimoni e il tasso di fecondità delle donne italiane, spaventosamente basso. Nel mio ultimo libro, che verrà pubblicato a settembre da Vita e Pensiero, cerco di rispondere a un interrogativo: le società post-moderne hanno ancora bisogno di famiglia?».
E come risponde?
«Bisogna "riattivare" i matrimoni, che sono troppo pochi – come i figli – se vogliamo riattivare il paese e uscire dalla crisi. Non ci si impegna più sulla formazione delle coppie: c’è una scarsa educazione ai sentimenti e una scarsa educazione al rischio».
Anche in Italia c’è la tendenza al “divorzio breve”, dice l’Istat, che gli italiani corrono a fare negli altri paesi. Quali le conseguenze?
«Sicuramente il divorzio breve non aiuterà l’Italia. È tipico di quei paesi dove la famiglia si consuma e si cambia come un’auto. Ha funzionato in America, dove da sempre il divorzio si accompagna a un alto tasso di nuzialità e di natalità. In Italia, con il bassissimo dinamismo che ci caratterizza, non funzionerà, ma aggraverà la situazione. Il rischio è che il divorzio breve sia un’ulteriore banalizzazione del matrimonio e della famiglia, la dimostrazione che di famiglia c’è sempre meno bisogno».