Social street, quando il web aiuta a saldare i legami tra vicini di casa
È un fenomeno nuovo, tutto italiano, quello delle social street (la prima è stata via Fondazza a Bologna, nella foto): è una comunità di residenti che si costituisce nel web e che poi si dà appuntamento in strada per far festa, approfondire le relazioni e migliorare la vita del quartiere di cui fa parte. Anche il progetto "Volontari di comunità" del Csv di Padova, con Ulss 6 Euganea, comune di Padova e fondazione Cariparo, sta tenendo conto di questa nuova modalità.
Solo il 22 per cento dei cittadini italiani sopra i 16 anni esprime un alto livello di soddisfazione per i rapporti personali con parenti, amici e colleghi, contro la media europea di 39,2 per cento e 6 italiani su 10 dichiarano di non parlare con i vicini di casa, principalmente per mancanza di tempo e per diffidenza.
Sono due dati, il primo estratto del rapporto Bes 2016, il secondo da uno studio su 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni del 2016 commissionato da Nescafè, che confermano una sensazione che il mondo del volontariato e del privato sociale ha chiara già da tempo.
In un clima generale di sfiducia e frenesia, stiamo perdendo, come cittadini, il tempo per la socializzazione e l’aiuto reciproco. Dalla necessità di rinsaldare i legami sociali a livello di quartiere è nato due anni fa il progetto “Volontari di comunità” del Centro servizio volontariato provinciale di Padova con l’Ulss 6 Euganea, il comune di Padova e la fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, che oggi si trova in una fase di ridefinizione degli obiettivi e delle strategie, anche grazie al contributo che sta apportando l’università degli studi di Padova con il dipartimento di psicologia.
Una delle metodologie che si stanno studiando prende spunto dal fenomeno sempre più diffuso delle “social street”. Cristina Pasqualini, ricercatrice di sociologia generale alla facoltà di scienze politiche e sociali dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e coordinatrice dell’Osservatorio nazionale sulle social street spiega cosa siano: «Sono vie sociali 2.0, ovvero strade abitate da vicini di casa, che prima non avevano rapporti e relazioni sociali e poi, grazie soprattutto al social network Facebook, hanno iniziato a conoscersi, frequentarsi e fare cose assieme».
Da cosa si distinguono rispetto ad altre esperienze di socialità?
«Le social street hanno tre caratteristiche fondamentali che le rendono riconoscibili, rispetto ad altre esperienze: innovazione, inclusione sociale e gratuità. Sono fenomeni nuovi e innovativi nel senso che promuovono la socialità di vicinato a partire dalla rete ma non si fermano alla rete, in quanto le persone tendenzialmente scendono in strada, cercano un contatto reale, offline. Sono fenomeni sociali inclusivi, perché aspirano a tener dentro, a coinvolgere tutte le persone che abitano la strada, nella loro eterogeneità e complessità: giovani e anziani, italiani e stranieri, coloro che hanno un elevato capitale economico e sociale e coloro che, al contrario, vivono in condizioni di forte vulnerabilità. Sono fenomeni che si fondano non tanto sull’economia collaborativa, ma sull’economia del dono. È importante sottolineare che le relazioni sociali fondate sul dono sono rafforzate dal dono stesso e diventano estremamente significative e importanti. Il dono rafforza il capitale sociale, genera benessere a 360°».
Come si fa a mantenere viva questa comunità?
«Ogni social street ha uno o più amministratori, ossia persone che si fanno carico di moderare le discussioni sul social network, oltre a organizzare incontri offline, come ad esempio pizzate, aperitivi, feste di vicinato, ecc. Gli amministratori dedicano ogni giorno tempo ed energie alla gestione del social network, ma da soli non bastano, ossia tutti sono chiamati non solo a partecipare ma anche a proporre, a fare. Un amministratore, per quanto bravo e impegnato, da solo non può fare tutto, è importante che anche gli altri sentano di voler condividere progetti, idee e percorsi tra vicini. La social street è un gruppo orizzontale, non gerarchico. L’amministratore è un moderatore, non un leader. È semplicemente un connettore, un nodo della rete, che smista, coordina, raccoglie, fa sintesi. E fa anche rispettare alcune poche regole che le social street si sono date: niente politica e niente economia».
C’è un “profilo tipo” di chi aderisce/interagisce a questa comunità?
«Le social street sono inclusive, ossia intergenerazionali, interculturali e interetniche, tuttavia si possono riscontrare delle differenze tra quanto avviene a livello virtuale e reale. Sicuramente la massima inclusività viene garantita e raggiunta a livello reale, perché è più facile, ci sono meno barriere di accesso. Sul piano virtuale, i dati dell’indagine che abbiamo realizzato nelle città di Milano, Bologna e Mantova, come Osservatorio sulle social street, ci dicono che coloro che partecipano online hanno mediamente un elevato capitale culturale, un’età tra i 30-40 anni, usano quotidianamente Facebook, sono interessati alla politica ma non a un partito specifico, sono poco interessati all’associazionismo tradizionale, quello a cui siamo stati abituati in passato. Questo ci fa ipotizzare che per queste persone questa strada sia una modalità interessante per impegnarsi per gli altri e per il territorio in cui abitano».
Come si sta sviluppando il fenomeno in Italia?
«Se la prima social street risale a Bologna in via Fondazza nel settembre 2013, oggi, a febbraio 2017 in Italia e nel resto del mondo, abbiamo mappato circa 454 social street, tutte differenti tra loro, con ampiezza e caratteristiche diverse. A Milano il primato, da sempre: ne abbiamo contate 76. A Bologna ce ne sono 66, a Roma 33 e a Padova 3. Un fenomeno made in Italy che aspira a essere esportato anche all’estero, dove si avverte ugualmente l’urgenza di riattivare i legami di vicinato, perché l’asocialità tra vicini non è un problema solo delle grandi città italiane. Il fenomeno social street è cresciuto molto in questi primi tre anni, sicuramente per l’effetto novità, per l’effetto mediatico e per l’effetto facilità. Oggi tuttavia assistiamo a un nuovo effetto di crescita: ho deciso di chiamarlo “effetto buona pratica”. In altre parole, coloro che vengono a contatto con una social street particolarmente attiva e hanno modo di coglierne potenzialità e benefici, generalmente provano a loro volta ad aprirne una loro, nella strada e nella città in cui vivono. Questo effetto è estremamente generativo».
Quali sono le potenzialità e i limiti di questo modello?
«Le potenzialità superano i limiti: gratuità, costo zero, informalità. Le persone hanno necessità di trovare nuove forme di impegno sociale, che siano più informali, meno strutturate, in cui il fare non segue la logica del dovere fare, ma del voler fare quando si può, quando si ha disponibilità di tempo, quando si ha un’esigenza specifica, un bisogno contingente. Questo nuovo modo di attivarsi sembra più attuale con gli stili di vita delle persone, spesso frenetici, già saturi di impegni, di dover fare e dover essere. Nelle social street la partecipazione avviene informalmente, con la massima libertà».
Come avvicinare a questo strumento chi non ha dimestichezza con i social, come ad esempio gli anziani?
«Lavorando sia sulla dimensione virtuale che reale, nessuno idealmente è escluso da una social street. Gli anziani, ad esempio, possono trovare tutte le informazioni utili, lasciare comunicazioni o richiedere aiuto sulle bacheche preposte distribuite in alcune zone della strada, come bar e negozi. Non solo, alcune social street hanno avviato dei veri e propri corsi di alfabetizzazione digitale, in cui gli anziani gratuitamente hanno potuto seguire lezioni di base per imparare a utilizzare un pc e Facebook. Alcuni vicini hanno addirittura condiviso o messo a disposizione alcuni loro vecchi pc, donandoli proprio a persone che ne erano sprovvisti, per ragioni differenti».
Le social street aiutano il consolidamento di reti di buon vicinato e di volontariato di prossimità?
«Certamente perché nascono proprio con la finalità di promuovere la socialità tra vicini di casa. Sono una forma nuova e innovativa per rispondere a un bisogno vecchio, quel bisogno di comunità connaturato alle persone che si è perso in tempi più recenti, soprattutto nelle grandi città». A Padova le tre social street censite risultano a oggi non attive, mentre si sta sviluppando una quarta di cui si parla nei prossimi articoli. Le potenzialità sono quindi enormi, anche nella città del Santo dove il fenomeno deve ancora svilupparsi. Per restare aggiornati sul tema è possibile seguire il sito www.comunitachecura.it