Housing first: per i senza dimora prima la casa, poi il percorso terapeutico
Il metodo Housing first parte da Lisbona: dare la casa ai senza dimora per poi intraprendere il percorso riabilitativo. A Padova, in un convegno dello scorso 14 giugno, i soggetti del non profit che si occupano di persone senza dimora a Padova si sono confrontati insieme alla Caritas diocesana.
Housing first. Prima la casa, poi tutto il resto. Questo nuovo approccio al trattamento dei senza dimora sembra rivoluzionario, in realtà si basa su un assunto del tutto pratico: aiutare la persona dandogli immediatamente un tetto sopra la testa è decisamente più efficace e paradossalmente economico che assisterlo mentre è ancora per strada. Il modello, sperimentato a Padova, ha già dato ottimi risultati.
Lo scorso 14 giugno, presso la sede dei missionari Comboniani in via San Giovanni da Verdara, si è svolto il convegno “Prospettive di Housing. Dal Cap35100 al progetto La strada verso casa passando per Lisbona”.
A organizzare questo momento di confronto, il coordinamento dei servizi di accoglienza per le persone senza dimora della città di Padova, Cap35100, di cui fanno parte Gruppo R (cooperativa del Gruppo Polis), la Caritas diocesana, le cooperative Cosep e Nuovo villaggio e il dipartimento di psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’università degli studi di Padova.
«Il convegno – spiega Emanuela Tacchetto del Gruppo R – è stata l’occasione per mantenere alta l’attenzione su questo tema. L’Housing first crea entusiasmo perché rilancia il valore dell’abitazione per le persone senza dimora, un entusiasmo che rischia di venir affievolito dalle difficoltà nel reperire finanziamenti».
Il centro del modello dell’Housing first è che la casa non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza: «Prima la casa, poi il percorso terapeutico. Il supporto degli educatori e dell’équipe è costante anche se leggero, non è mai invasivo e sollecita le persone a fare delle scelte, andando avanti con il proprio progetto di vita».
A Padova Cap35100 è nato nel febbraio 2014 come coordinamento di cinque enti, tra i quali la Caritas, che ha dato il via alla prima sperimentazione: quattro appartamenti per sedici ospiti. Nello stesso anno è nato il primo network italiano sull’Housing first, che ormai raggruppa più di 50 realtà diverse.
Tra le ispirazioni che ci si è dati in questa operazione c’è l’esempio più che positivo che arriva da Lisbona: «La capitale del Portogallo – continua Daniele Sandonà del Cosep – è stata una delle prime ad applicare il modello dell’Housing first. Siamo stati lì a settembre, incontrando persone che sono nel programma da sei anni. Ci dicono che costano meno di una persona che è inserita in un dormitorio pubblico, quando il dormitorio pubblico ti assiste solo di notte, mentre una casa permette ai senza dimora di organizzarsi la giornata e di seguire dei progetti. È una vita diversa».
L’Housing first aumenta le chance che le persone possano riprendere una vita “normale”?
«Certamente conviene intervenire il prima possibile verso chi è in strada: prima vieni accolto più sei disponibile a metterti in gioco e ripartire. Ma se passi tanto tempo in strada ormai hai già imparato dove trovare da mangiare, cosa fare e perdi la voglia di uscire da questo circolo vizioso. Prima si interviene meglio è. Da Lisbona ci sono sia storie di successo, con corsi di formazione professionale, sia qualche cronicizzazione e fallimento, ma ciò che conta è “smuovere le acque”».
Il modello non è né un ragionamento astratto né il pretesto per qualche sporadica sperimentazione, ma viene visto con interesse anche dalle istituzioni. Al convegno del 14 giugno era infatti presente anche la regione Veneto.
«La Regione – osserva Daniele Sandonà – ha incaricato come ente consulente la Fio.PSD - Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, di costruire una proposta per il Programma operativo nazionale (pon) Inclusione dei prossimi anni. Questa progettazione con i fondi europei dovrebbe sposare anche il metodo Housing first, portandolo tra le linee guida del trattamento della grave marginalità».
«Nonostante l’interesse delle istituzioni – conclude Emanuela Tacchetto – resta la difficoltà generalizzata di pensare a delle progettualità a lungo termine. Ma un progetto come questo non può basarsi su finanziamenti a pioggia o una tantum: ci vuole coraggio per investire. Confidiamo che i fondi europei che arriveranno potranno sostenere interventi anche ad ampio respiro».