XII Domenica del tempo ordinario *Domenica 19 giugno 2016
Luca 9, 18-24
Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».
“Fame” di pienezza, costi quel che costi
Il Giubileo dei giovani, che si celebra sabato 18 giugno, è un momento prezioso in cui i giovani non sono “oggetto” della pastorale quanto protagonisti attivi. Valorizzando l’occasione il commento alla Parola è nato in dialogo con alcuni giovani del gruppo parrocchiale, buona parte dei quali iscritti alla Giornata mondiale della gioventù di Cracovia. Ecco le risonanze che questo brano evangelico ha evocato in loro.
La preghiera. «Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare»
Quale bisogno aveva il Figlio di Dio di pregare, si chiede Carlotta, che racconta di un incontro formativo da lei tenuto a dei 16-17enni animatori del grest. Provocati a cogliere la differenza fra l’animatore di un grest parrocchiale e quello di un qualsiasi centro estivo, molti di quegli aspiranti animatori esprimevano perplessità nei confronti della fede, in generale, e della pratica della preghiera in particolare. Difficoltà comprensibile, nota Carlotta: di fronte al peso del male e dell’ingiustizia è faticoso credere che l’amore è più forte, che c’è una buona novella di bene e di pienezza, che vale la pena aver fiducia in Gesù Cristo.
Per un giovane di oggi è fondamentale il modo con cui si è iniziati alla preghiera: occorre liberarla da quella patina di cosa noiosa e ripetitiva che alla fin fine si ritrova addosso. Grazie, quindi, a coloro che lavorano con efficacia in questo senso, come ad esempio la scuola di preghiera del seminario maggiore.
«L’essere Figlio di Dio non ha affatto evitato a Gesù tutte le fatiche dell’essere un vero uomo»: Carlotta conclude così il suo intervento, con una frase da manuale di teologia.
Per capire chi siamo noi e chi è Dio la preghiera è un’esperienza fondamentale: soprattutto la preghiera silenziosa, contemplativa, è come un grembo che genera verità in noi. Gesù pregando fa aderire tutto il suo essere alla missione che deve portare a compimento in Gerusalemme: per dirla semplicisticamente, la preghiera è la sua preparazione immediata alla passione, morte e sepoltura.
La preghiera genuina non ci avvicina soltanto alla verità di noi, della nostra vocazione: svela e fa sperimentare in modo forte chi è Dio. La preghiera più bella, allora, è quella in cui è Dio il protagonista che si rivela.
Al riguardo così si esprime un racconto: «Il maestro raduna i suoi discepoli e domanda loro: “Da dove prende avvio la preghiera?”. Il primo risponde: “Dal bisogno”. Il secondo risponde: “Dall’esultanza. Quando esulta l’animo sfugge all’angusto guscio delle mie paure e preoccupazioni e si leva in alto verso Dio”. Il terzo: “Dal silenzio. Quando tutto in me si è fatto silenzio, allora Dio può parlare”. Il maestro risponde: “Avete risposto tutti esattamente. Tuttavia, v’è ancora un momento da cui prende avvio e che precede quelli da voi indicati. La preghiera inizia in Dio stesso. È lui ad iniziarla, non noi”».
Chi sei? «Ma voi, chi dite che io sia?»
Silvia racconta che si è posta, e si pone, questa domanda più volte, per evitare che la fede si riduca a una grigia abitudine. Coglie nella domanda di Gesù quasi un gesto di umiltà e il desiderio di stimolare gli apostoli a un salto di qualità nella relazione con lui. Ogni credente deve misurarsi con la domanda da Gesù, che non cerca approvazione o rassicurazione dai suoi; piuttosto dà impulso alla crescita della loro fede.
Per Stefano tutti, prima o poi, fanno i conti con questa domanda ed è significativo che nel vangelo siano riportate più risposte, cioè anche le risposte incomplete o inesatte ma che sono tappe di un cammino. L’ambiente in cui si cresce e gli input che si ricevono aiutano molto ma poi la risposta è del tutto personale: nessuno crede al posto tuo e la fede non scatta in automatico ai nostri giorni.
Leonardo: «Mi capita di confrontarmi con dei coetanei e di dire loro che possiamo avere più dubbi sulla storicità di Giulio Cesare che su quella di Gesù. Al riguardo ci sono abbastanza pregiudizi e valutazioni superficiali: trovo stimolante accettare un confronto anche dialettico, in cui idee diverse in qualche modo si “scontrano” allo scopo di cercare assieme al verità».
Le due domande di Gesù non sono una sorta di sondaggio di opinione (in questi giorni tanto di moda per via dei ballottaggi alle amministrative) o il frutto di insicurezza. Egli non sta mendicando approvazione e conferme: queste sono dinamiche non mature che spesso vediamo all’opera nelle persone... e in noi stessi. La psicologia su questo ha fatto passi da gigante e può dare validissimo aiuto per uno sviluppo armonioso della persona.
Con due domande Gesù stana la libertà dei suoi: in questo stesso capitolo 9, al versetto 51, si dice che «egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Il suo domandare ha questo orizzonte: decidersi, giocare tutta la vita per compiere la propria vocazione. E a questo orizzonte egli chiama i suoi: passare dal sentito dire a quel che si sente dire dallo Spirito santo stesso. Infatti nel brano parallelo di Matteo (16,17) Gesù aggiunge a Pietro: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli».
Rinnegare se stessi. «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso»
Per Piercarlo rinnegare se stessi non è avere scarsa considerazione di sé! Consiste nel non mettere sempre al centro se stessi e nel dare ascolto e spazio all’altro. È tenere sotto controllo l’egoismo, pericolo sempre presente, e vivere con uno spirito di umiltà.
Pietro: «Non tutti sono disposti a far fatica per seguire Gesù e i suoi insegnamenti. Un cristiano sa che non è mai una “passeggiata” ispirare la propria vita alla sua. Ci sono delle difficoltà e vanno affrontate perché il premio che egli ci promette è grande. Il premio poi non è solo nell’aldilà, è già qui, ora. Gesù poi le cose che dice a noi le compie in prima persona: le sue non sono solo parole».
«Se qualcuno vuole»: e qui il volere ha anche i toni del desiderare, del fare qualcosa che attira e... piace. Il verbo greco ha anche questo significato. Ha scritto Benedetto XVI: «La chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per “attrazione”: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della croce, così la chiesa compie la sua missione nella misura in cui, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore» (omelia ad Aparecida, Brasile, nel 2007).
Rinnegare se stessi è allora investire sull’amore vero rendendo meno ingombrante l’ego. Sant’Agostino scrive: «Bisogna possedere l’amore retto ed evitare quello deviante. Chiunque, abbandonato Dio, non avrà amato che sé e, per l’amore di sé, si sarà separato da Dio, neppure in sé dimora, ma esce addirittura fuori di sé. Va esule fuori dalla sua coscienza disprezzando la vita interiore, preso dall’amore per quanto è a lui estraneo».
La croce. «Se qualcuno vuole venire dietro a me… prenda la sua croce ogni giorno e mi segua»
Silvia: «Ad un primo ascolto questa frase di Gesù potrebbe suonare scoraggiante. Gesù non cerca facile consenso. Va detto che nella croce noi tendiamo a vedere solo il dolore e la negatività; invece c’è anche l’invito a dare tutto di sé per amore. La croce mi fa pensare che le cose che valgono davvero, che sono decisive richiedono... tutto! Che uno si dovrebbe buttare nella vita senza farsi bloccare dalla paura. La croce è un sacrificio grande... ma rende il dolore amore».
Stefano: «Bisogna andare in profondità nel capire cosa sia la croce di cui parla Gesù. Qualche volta la croce siamo noi, cioè quella parte di noi che è debole e fragile e ci vorrebbe convincere che non riusciremo a fare grandi cose. Prendere la croce è allora un forte invito al coraggio di mettersi in gioco, in azione, anche se ci è capitato di sbagliare, di deludere noi stessi e gli altri».
Leonardo: «Non si tratta solo di prendere la croce ma di seguire Gesù. Croce significa qui impegno finalizzato a un obiettivo e quindi non ha affatto un valore pesante e sconfortante. Come capita nello sport: ci si allena con fatica giorno per giorno per arrivare al momento della sfida decisiva e poter “vincere”. Salvare la propria vita è riuscire a dare il massimo, senza tirarsi indietro: è decisivo camminare nella giusta direzione».
Tutti e tre i commenti dei giovani mettono in luce che la croce va vista nella prospettiva del seguire l’amore anche quando costa... quasi che la silhouette della croce sia un grande indice puntato verso quella vita piena che Gesù ha annunciato e realizzato: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Auguro a questi giovani che hanno dialogato con la Parola, a tutti i giovani di avere questa bellissima “fame” di pienezza, costi quel che costi! Saranno un grande dono per la chiesa tutta.