#iorestoacasa e tutto diventa routine
Il tempo passa e la consegna per tutti è #iorestoacasa. Bene. Facciamo questo sforzo così forse ce la caviamo prima. Finite le passeggiate, si pedala ascoltando musica e si cucina tra un battibecco e l'altro perché se non si mette un po' di pepe sulla carne e nella coppia che gusto c'è?
Poi arriva la domenica, la seconda chiusi in casa, e ti senti un po’ giù. Down dicono di là dell’Oceano. Sarà anche perché la mattina inizia con un po’ di grigio e ti sembra di avere freddo. Poi dopo il secondo caffè - non so se ci sia una relazione causa- effetto - il sole si mostra e la giornata prende un’altra piega. Bene, posso lavorare in terrazzo. Ci sono i vasi ancora pieni delle erbacce del tardo autunno che hanno soffocato i gerani e se voglio che qualcosa torni a vivere è necessario ripulire, arieggiare la terra e concimare. È un lavoro che mi piace perché da sempre togliere le erbacce mi sgombra la testa. E i pensieri diventano leggeri. E il mondo ti sembra un buon posto dove stare anche se senti la preoccupazione che sale. Un paio di amici sono chiusi in quarantena perché sono stati in contatto con uno ”positivo”: niente di che, certo, ma li pensi e speri che la febbriciattola resti tale.
La settimana è passata in fretta con gli articoli da scrivere, i contatti da coltivare, le letture di aggiornamento. Per un paio di giorni ci son state anche le passeggiate sull’argine della Brenta. Giù, vicino all’acqua dove c’eravamo solo noi due - io e mio marito - uno dietro l’altro, in silenzio a godere del rumore dell’acqua, del vento, del profumo delle viole che son così tante da farmi ricordare quando molti anni fa “Violetta di Parma” era il profumo che papà portava in regalo alla mamma quando tornava da Salsomaggiore dove aveva “passato le acque” perché (pare) soffrisse di fegato. Poi ci han tolto questa possibilità e va bene: #iorestoacasa è diventato il motto di ciascuno quindi facciamo un passo indietro.
A questo punto se non voglio lavorare più di “prima del coronavirus”, meglio buttarsi sulla cyclette - comprata sei anni fa e usata forse due settimane in tutto - e sui fornelli. Cucinare mi piace, ma quando lo devo fare per due, tutti i giorni, due volte al giorno diciamo che mi piace meno. Così mi industrio e preparo zuppe di verdure che si possono riscaldare anche tre volte (non di fila), ragù per condire la pasta, imbottire le zucchine, preparare il pasticcio, cucino l’arrosto che è un pezzo grande (altrimenti non vien bene) e si può riproporre e poi tante tantissime insalate, carciofi tiepidi con le scaglie di grana, radicchi in padella, le coste lessate e (una volta a settimana) patate al forno.
Sul cibo ogni tanto la coppia vacilla. Io mangio meno e non vengo assalita dai morsi della fame mentre lui si siede davanti al piatto non appena metto una pentola sul fuoco. E mi mette ansia. Se ha già fame da star lì ad aspettare forchetta in mano prima che l’acqua bolla come faccio a far presto? Lascio all’immaginazione di chi legge il teatrino che a quel punto si imbastisce. Poi davanti al piatto pieno la pace torna a regnare. Almeno fino al momento del caffè che tocca preparare a lui e che di solito mi viene servito quando sto ancora masticando l’ultimo boccone. E la baruffa scoppia come un petardo, ma come un petardo si placa subito.
Per fare la cyclette invece mi sono sistemata un angolino riparato del terrazzo da dove guardo in giardino così mi sento sospesa sul mio mondo. Mi infilo gli auricolari e pedalando a più non posso ascolto Virgin radio che in questo periodo manda tutto il rock dei miei vent’anni. Il migliore (ovviamente).
Il momento più difficile - confesso- è quello dell’addormentarsi. È quello dei pensieri che sfarfallano, dei numeri che si visualizzano come un tabellone con l’orario dei treni: tot colpiti, tot morti, tot guariti, tot, tot, tot… Allora mi alzo, scendo in cucina, bevo un bicchiere d’acqua, controllo che tutto sia in ordine e mi rendo conto che non ho comprato il pollo.