Vaticano II, una lezione di fede, dialogo, annuncio e testimonianza
Domani ricorrono i 50 anni dalla chiusura dell'ultimo concilio della chiesa cattolica. Molto è cambiato da allora, ma le due stagioni, l'odierna e quella conciliare non sono poi così differenti. La novità, allora, fu il passaggio dalla “severità dell’anatema” alla “medicina della misericordia”. Oggi il papa indice un giubileo proprio sulla misericordia per invitare la chiesa a far propria fino in fondo una nuova visione di Dio, centrata sul suo amore e sulla gioia del vangelo.
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A cinquant’anni esatti dalla conclusione del Vaticano II è tempo di misurarsi, a Padova come altrove, con una domanda che potrebbe sembrare retorica: chi ha paura del concilio?
La domanda ha una lunga storia. Nacque con l’annuncio stesso del concilio il 25 gennaio 1959 e si tramutò ben presto in un impressionante e devoto silenzio. Continuò per tutta la durata del concilio nella forma di un ostruzionismo quasi metodico da parte di un drappello coeso e deciso di alcuni vescovi e cardinali. Persiste oggi, mezzo secolo dopo, tra quanti resistono al tentativo di papa Francesco di riformare la chiesa.
Il motivo è sempre lo stesso: il cambiamento, la novità. Allora la novità era incarnata dallo stesso pontefice Giovanni XXIII, un semplice e umile cristiano capace di toccare il cuore della gente e incline a sostituire la “severità dell’anatema” con la “medicina della misericordia”. Oggi è rappresentata da una visione di chiesa non più “organizzazione gerarchica”, ma “comunione di battezzati”.
Ci troviamo di fronte a interpretazioni diverse del concilio, da quella riduttiva a quella favorevole a sviluppi, ma anche a due figure di chiesa, due modi di comprendere la sua identità e missione, che implicano atteggiamenti e impostazioni pastorali diverse. Vi è chi è più convinto di una chiesa “forte”, decisa a ricostruire una “nuova cristianità” in termini esclusivi, antagonisti, come se solo il cattolicesimo fosse l’unico depositario della verità e della salvezza. Altri ritengono che non sarà la ricostruzione di una “nuova cristianità” a ridare slancio al vangelo, ma piuttosto una chiesa “debole”, pellegrina nelle strade del mondo, spazio di accoglienza per quanti soffrono povertà e ingiustizia, oscurità e dubbio, diversità e bisogno.
Se ci pensiamo bene, il problema all’ordine del giorno della chiesa oggi è simile a quello impostosi al tempo del concilio: rialzare le antenne alla ricerca di nuovi segni, nuovi segnali, che per altro non è difficile captare. In mezzo a mutamenti giganteschi molti uomini e donne ritrovano la domanda su Dio, sulla vita, sulla sofferenza, sull’amore, sulla morte, sull’esigenza di una nuova spiritualità, di una nuova etica, che renda la vita degna di essere vissuta.
Culture, religioni e migrazioni fra le più colossali mai viste nella storia stanno rimescolando il mondo. C’è bisogno di una nuova unità tra i popoli, di un mondo in cui spiritualità ed etica vengano prima della politica e della tecnologia, i soggetti prima delle cose, l’essere prima dell’avere, la misericordia prima della giustizia.
Saprà la chiesa intercettare queste domande, interpretare questi segni, captare questi segnali, e cogliere in essi un appello che la riguarda? Non ne siamo proprio sicuri. Il recente sinodo sulla evangelizzazione della famiglia ci ha mostrato una chiesa che tenta, ma anche stenta a “camminare insieme”, ad affrontare tutta una serie di problemi, di questioni aperte, da cui dipendono la sua credibilità e la fruttuosità della sua missione.
Il concilio Vaticano II non poteva certo trovare una risposta per tutte le questioni. Ha però delineato gli orizzonti entro cui muoversi: fede, dialogo, annuncio, testimonianza. E ha consegnato alle comunità un metodo invitandole a riflettere e operare «alla luce del vangelo e sotto lo stimolo dei segni dei tempi». Ma i problemi sono ancora tutti là: dalla contraccezione al celibato dei preti, dall’ecumenismo al rapporto con le altre religioni, fino ai problemi che al tempo del concilio non erano ancora emersi a un livello di piena consapevolezza nella chiesa: il ruolo della donna, i divorziati risposati, la nomina dei vescovi. Unitamente, si capisce, a problemi e questioni ben più pesanti e impegnative come la tensione tra chiesa comunione e chiesa istituzione, collegialità e primato del papa, sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, senso dei fedeli e magistero gerarchico, potere di ordinazione e di giurisdizione.
Ce ne sono altre ancora, che certo papa Francesco non ignora, e che anzi ha presenti. Ma che il papa ha scelto di affrontare andando alla radice dei problemi, modificando la visione di Dio che li sottende e per certi aspetti ne ostacola, se non la soluzione, certo la chiarificazione. Di qui la sua insistenza sul tema della misericordia. Di qui la decisione di indire un giubileo della misericordia.
Il vero paradigma di riforma della chiesa, secondo lui, è questo: far sì che una nuova visione di Dio, più centrata sul suo amore misericordioso, inspiri serenità nei cuori e diffonda in tutti quella gioia che lui stesso nel primo documento del suo pontificato, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, aveva definito la “gioia del vangelo”. EGiuseppe Trentin