Sedersi a tavola, alle cucine popolari, tra amici veri
Le cucine economiche popolari sono una grande tavola che la nostra chiesa apparecchia ogni giorno da più di un secolo. Sono un servizio sociale prezioso, ma sono, prima di tutto, frutto della consapevolezza che la nostra società ha bisogno di guardare ai poveri con occhi diversi. Di riconoscere in loro – come ha detto il vescovo Claudio andando a visitarle martedì scorso – degli amici con cui è bello mettersi a tavola. Non dei nemici da allontanare con ogni mezzo.
Da che mondo è mondo, in ogni epoca e in ogni cultura, la tavola rappresenta un luogo prezioso per la vita delle comunità.
A tavola festeggiamo matrimoni e battesimi, a tavola accogliamo gli amici, a tavola si sono strette alleanze e firmati accordi. Perfino i politici, quando c’è da chiudere una trattativa, preferiscono generalmente il tavolino discreto di un ristorante agli asettici uffici del palazzo.
Se non ci ritroviamo per cena attorno alla tavola di casa – ci insegnano le nostre mamme e ci ricorda papa Francesco – si perde l’idea stessa di famiglia.
Nulla come una tavola imbandita sa creare relazioni perché invita alla condivisione, spinge al dialogo, costringe volenti o nolenti – per piacere o solo per educazione – a guardare all’altro con occhi diversi. O, meglio, a riconoscerci in fondo tutti uguali.
Le cucine economiche popolari sono una grande tavola che la nostra chiesa apparecchia ogni giorno.
Ci si mangia bene, ma non è che le curiamo con tanto affetto perché vogliamo fare concorrenza ai ristoranti.
Svolgono un servizio sociale prezioso, ma non ci ostiniamo a mandarle avanti solo perché c’è da ovviare alla disattenzione dello stato.
Questo, se possiamo dire così, è il contorno. Ma al cuore di una scelta che segna la vita della nostra chiesa da più di un secolo c’è, prima di tutto, la consapevolezza che la nostra società ha bisogno di guardare ai poveri con occhi diversi.
Di riconoscere in loro – come ha detto con una bellissima frase il vescovo Claudio – quegli amici con cui è bello mettersi a tavola. Per mangiare, certo, ma anche per intrecciare le nostre vite.
Parlate con i volontari, parlate con gli operatori delle cucine, e scoprirete che anche qui (ma quante volte e in quanti luoghi lo abbiamo sentito dire!) nessuno sa dire con esattezza quanto ha donato e quanto, in cambio, ha ricevuto nelle giornate trascorse in cucina, nel servizio ai tavoli, nell’accoglienza degli ospiti.
Credo sia importante, a maggior ragione in questi giorni di polemica politica, rimarcare questo aspetto. Perché le cucine economiche sono un segno grande, ma non sono un’oasi nel deserto.
Le affiancano tante parrocchie che una domenica al mese aprono le loro porte per i pranzi solidali, le affiancano i centri di ascolto vicariali della Caritas, le affianca un lavoro silenzioso e quotidiano di associazioni, movimenti, singole persone di buona volontà impegnate nel recupero delle eccedenze alimentari, nel Pane dei poveri, nel sostegno alle famiglie in difficoltà economica, nei progetti del Fondo straordinario di solidarietà per il lavoro.
È un impegno serio, responsabile, che non si limita a ovviare al bisogno contingente ma guarda più in là, per accompagnare le persone a rialzarsi, a rimettere in moto le proprie doti per un cammino sempre difficile e però possibile di uscita dalla povertà. Ma tutto questo può funzionare a una sola condizione: che si crei un vero rapporto, personale, di conoscenza. Che chi ha meno senta l’attenzione, l’interesse di una comunità per la sua storia. Che si senta accolto come persona, non trattato come un caso statistico.
Ha ragione il sindaco Bitonci quando ricorda che le cucine economiche non sono un mondo a sé stante.
Ma dire che «quello che succede fuori è aiutato da quello che succede dentro», che nel degrado della zona attorno alla stazione c’è una responsabilità delle cucine, che è «troppo comodo dar da mangiare e poi fregarsene di quello che succede fuori», che «ci si chiude solo all’interno di un aspetto caritatevole senza prendere coscienza di un grave problema della città», che «non c’è suor Lia che tenga su una cosa di questo tipo», significa – diciamolo con parole gentili – invertire i termini della questione.
È la vita stessa delle cucine che ha ragion d’essere per quel che succede fuori, non il contrario. È la carità concreta che fa prendere coscienza dei problemi, altro che storie.
Così come pensare che una dozzina di agenti con cani antidroga sguinzagliati per qualche giorno attorno alle cucine, quasi a costruire una trappola per animali, siano la migliore risposta che il comune può dare al problema, significa – diciamolo ancora con parole gentili – anteporre l’immagine alla sostanza.
E la sostanza, non da oggi, è fatta dalla carne viva di una città che si sta riscoprendo fragile, che fatica a metabolizzare la sua nuova dimensione multietnica, che si è lasciata illudere dagli slogan salvo poi ritrovarsi più insicura di prima.
È questo che dovrebbe starci a cuore, in uno sforzo condiviso per immaginare una Padova diversa.
Ciascuno con i mezzi e il carisma che gli sono propri, ma tutti consapevoli di una semplice verità che troppe volte preferiamo ignorare e che il vescovo ci ha ricordato con la sua visita: «L’attenzione a chi è in difficoltà è segno di civiltà e di cultura». Su questo, non su altro, saremo giudicati.