L'elogio di Benedetto, "teologo in ginocchio"
Nella prefazione a un libro con testi di Benedetto XVI sul sacerdozio, papa Francesco elogia il suo predecessore e lo definisce un «maestro di fede» che ha fatto e fa “teologia in ginocchio”. Come interpretare questo elogio? Che significa fare “teologia in ginocchio”? Forse che non si può – mi si passi l’espressione – fare “teologia in piedi” frequentando facoltà teologiche, aule, biblioteche?
Nella prefazione a un libro con testi di Benedetto XVI sul sacerdozio, papa Francesco elogia il suo predecessore e lo definisce un «maestro di fede» che ha fatto e fa “teologia in ginocchio”.
«Ogni volta che leggo le opere di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI mi diviene sempre più chiaro che egli ha fatto e fa teologia in ginocchio: in ginocchio perché, prima ancora che essere un grandissimo teologo e maestro della fede, si vede che è un uomo che veramente crede, che veramente prega; si vede che è un uomo che impersona la santità, un uomo di pace, un uomo di Dio».
Come interpretare questo elogio? Che significa fare “teologia in ginocchio”?
Forse che non si può – mi si passi l’espressione – fare “teologia in piedi” frequentando facoltà teologiche, aule, biblioteche? Evidentemente sì, non penso che papa Francesco lo neghi. Quella sollevata è comunque una questione molto più attuale di quanto si pensi e sulla quale vale la pena di riflettere un po’. Non fosse altro per il fatto che tutti abbiamo conosciuto papa Benedetto e abbiamo anche apprezzato le sue encicliche, i sui discorsi, le sue omelie, sempre così curate e sintonizzate con lo spirito della liturgia. Forse conosciamo un po’ meno i suoi libri e meno ancora, molto probabilmente, la sua teologia, che per altro non tutti hanno condiviso e alcuni anzi hanno aspramente criticato e contrastato.
Critiche nate non certo per il suo stile, il suo modo di esprimersi, di scrivere, da tutti ammirato per chiarezza espositiva, linearità di pensiero, rigorosità di analisi.
Non è questo che ha fatto e fa problema nella teologia di Ratzinger e nemmeno il suo modo di fare “teologia in ginocchio” che papa Francesco elogia, bensì questa o quella interpretazione della fede e del suo rapporto con la cultura greca che non tutti condividono. Soprattutto in un tempo nel quale la molteplicità di culture obbliga i teologi a inculturazioni diverse della fede.
In ogni caso il problema sollevato da Ratzinger di uno stretto rapporto della fede cristiana con una visione metafisica della realtà, elaborato e fatto proprio dai primi concili della chiesa, è non solo reale, ma sta impegnando due modi di fare teologia che rischiano, il primo, di confondere, il secondo di separare fede e cultura.
Ma vediamo più da vicino il problema richiamando anzitutto un dato storico.
Nella prima metà del secolo 12° si è sviluppato un modo di fare teologia molto legato e attento ai testi della bibbia, dei padri, letti e interpretati, soprattutto all’interno dei monasteri, a partire da una forte tensione e ricerca di spiritualità e di perfezione.
Nella seconda metà dello stesso secolo, viceversa, a partire non dai monasteri, ma dalle scuole urbane delle cattedrali e delle collegiate, si è venuto sviluppando un modo di fare teologia più aperto alla dialettica, al dialogo, al confronto con le scienze, la filosofia, la cultura del tempo.
Il primo era più incline a rivendicare la dimensione interiore, soggettiva, spirituale, della fede. Il secondo più propenso a valorizzarne la dimensione esteriore, oggettiva, culturale.
Il rischio di confondere o separare queste due dimensioni della fede e della vita cristiana è sempre in agguato.
Soprattutto se non si introduce una distinzione adeguata tra atteggiamento e comportamento dei teologi, tra dimensione pratica, esperienziale, della teologia e sua dimensione teorica, speculativa.
Quando papa Francesco in riferimento a papa Benedetto parla di “teologia in ginocchio”, credente, orante, immagino abbia in mente l’atteggiamento, non il comportamento dei teologi.
È come se invitasse i teologi, ma io direi anche i pastori, i catechisti, gli insegnanti di religione, a non abbandonarsi a speculazioni vane, e soprattutto a non esibire il proprio sapere teologico.
Viceversa quando si parla, magari in contrapposizione alla cosiddetta “teologia in ginocchio”, di “teologia in piedi”, raziocinante, speculativa – questo il papa non lo dice, lo aggiungo io – è come se si invitassero i teologi, i pastori, i catechisti, gli insegnanti di religione, a non abbandonarsi all’onda delle emozioni, e soprattutto a non improvvisare prediche o inventarsi interpretazioni che non corrispondono alla rivelazione cristiana.
Il rischio da parte di entrambi questi modi di fare teologia è di fare passare come parola di Dio, avvalendosi ora dei sentimenti, ora dei ragionamenti, ciò che è soltanto frutto di interpretazioni individuali e non di un sapere teologico serio, competente, frutto di lunghi anni di studio e di una serie di conoscenze bibliche, storiche e filosofiche che dovrebbero portare i credenti a parlar bene di Dio in una società che spesso lo ignora o bestemmia il suo nome.