L'Austria ha scelto bene. Ma i problemi restano
50,3 per cento per Alexander Van der Bellen, 49,7 per cento per Norbert Hofer. In termini assoluti, poco più di 31 mila voti: un’inezia, ma tanto è bastato per allontanare lo spettro di un presidente della repubblica dall’aspetto rassicurante ma espressione di un partito fondato da un ex ministro nazista e orgogliosamente fermo sulle sue posizioni nazionaliste e anti-immigrati. Ma le ragioni di preoccupazione per l'intera Europa non sono certo scomparse.
Dopo l’economia globale, dopo la comunicazione senza frontiere di internet, siamo alla globalizzazione della politica.
Tanto che il voto della “piccola” Austria finisce sotto i riflettori di tutta Europa e di mezzo mondo, tenendo tutti col fiato sospeso nell’attesa di sapere se un paese a forte tradizione democratica, potesse scegliere un presidente federale esplicitamente antieuropeista e dai forti tratti xenofobi come il favorito della vigilia Norbert Hofer.
Questa volta è toccato all’Austria, ma la stessa attenzione generale si era ad esempio riscontrata per votazioni recenti – regionali o nazionali, politiche o presidenziali – in Grecia, Francia, Scozia, Spagna, Polonia, Germania… E già si guarda, con preoccupazione che cresce a ritmo esponenziale, al referendum inglese del 23 giugno. Per non parlare dell’altra sponda dell’Atlantico, dove i sondaggi danno in testa un personaggio come Donald Trump.
Il mondo è interdipendente, e le grandi sfide di questa epoca – fra cui la crisi economica generatasi negli Stati Uniti e le migrazioni in partenza da Africa e Medio Oriente – si riversano sull’Europa, ne scuotono le coscienze, mentre si moltiplicano nell’opinione pubblica paure e chiusure non di rado cavalcate da classi politiche miopi che presentano risposte nazionaliste, semplicistiche e inconcludenti.
Come se alzare muri o chiudere gli occhi di fronte alle dinamiche planetarie possa preservare il giardino di casa dal corso della storia.
Tornando all’Austria, a prescindere dal risultato finale è chiaro che il paese è diviso in due, come ha subito saggiamente sottolineato il neo presidente
«Si è parlato molto di polarizzazione, ma io e Hofer – ha affermato Van der Bellen – siamo semplicemente le due metà che assieme formano questo grande paese. Nessuna di queste due metà è più oppure meno importante dell’altra». Promettendo di conseguenza un impegno, nell’ambito delle sue competenze, per ricucire lo strappo che divide la società austriaca, profondamente segnata dal tema migratorio, strumentalizzato in campagna elettorale dalla destra di Hofer.
È lo stesso richiamo giunto, appena noti i risultati elettorali, dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale: «Il nuovo presidente deve cercare di unire il paese», rappresentando «ciò che unisce più di quello che divide», e confermando l’Austria «un paese stabile, libero e prospero», aperto all’«Europa e al mondo».
A Vienna rimangono comunque in sospeso alcune domande di fondo: per ora ha prevalso, di stretta misura, l’Austria europeista, ma domani, quando si voterà per il rinnovo del parlamento e per la ben più rilevante carica di cancelliere, come si orienterà il voto popolare?
Quale fine faranno i partiti tradizionali – popolari e socialisti – che dal dopoguerra hanno guidato la nazione alpina e ora sono stati estromessi dal ballottaggio delle presidenziali? Più in generale: quale classe dirigente rappresenta oggi il paese (con un’economa forte, la disoccupazione ai minimi termini e un solido stato sociale) e ne sa cogliere le istanze più vere?
Un ulteriore interrogativo si pone rispetto alla rilevanza del cattolicesimo, ancora radicato e diffuso da Innsbruck alla capitale, da Salisburgo a Graz.
A questo proposito Gerda Schaffelhofer, presidente dell'Azione cattolica austriaca, ha dichiarato che «da un punto di vista cattolico le elezioni presidenziali sono state un disastro», se si considera che i voti al candidato populista «sono giunti soprattutto dalle zone rurali, notoriamente quelle più legate alla chiesa».
Un’affermazione che sarà da approfondire con una rilettura attenta dei risultati, ma è indubbio che siamo di fronte a un paese ad ampia maggioranza cristiana in cui la metà dell’elettorato ha mostrato di rincorrere le lusinghe xenofobe e le chiusure nazionaliste.
Ma allora le domande che oggi attraversano l’Austria e il cristianesimo austriaco non dovrebbero interrogare anche altri paesi europei – dalla Spagna all’Italia, dal Regno Unito all’Europa centro-orientale, dalla Germania ai paesi balcanici o nordici – con le rispettive comunità cattoliche, evangeliche e ortodosse?