Domenico Cappuzzo, patriarca della pittura religiosa
Un pennello strumento di salvezza: personale, dalla stretta della miseria che ereditavano i figli dei contadini della Bassa tra Otto e Novecento; collettiva perché metteva la sua chiara attitudine d’illustratore a servizio della Parola, sui muri delle chiese. Domenico Cappuzzo è nato a Correzzola, in una casa che sorge lungo il canale Rebosola, nel 1880, secondo di otto figli di una famiglia contadina. «All’epoca – scrive il nipote Mario – chi nasceva contadino moriva contadino. Il quella cultura era impossibile riscattare la propria condizione sociale che appiattiva tutti e non concedeva vie di fuga, fatta eccezione per quella ecclesiastica». Domenico invece una via diversa la trovò, usando il suo talento innato di disegnatore.
Domenico Cappuzzo andò con due suoi fratelli, Vittorio e Antonio, “a bottega” da Demetrio Alpago, prete pittore, e da lui imparò il “mestiere” del frescante d’arte sacra, che consisteva nel far fiorire le pareti delle chiese di campagna con fregi e figure di simboli, scene e personaggi biblici, semplici e leggibili, ma non privi d’intensità spirituale ed emotiva.
Così, quando il 24 settembre 1908 un malaugurato incidente sul lavoro uccise il maestro, caduto da un’impalcatura a Megliadino San Fidenzio, Domenico ereditò il lavoro dell’Alpago e lo continuò per più di mezzo secolo, per tutta la vita. A Carrè ultimò il grande Trionfo della croce iniziato dal maestro sul soffitto dell’arcipretale, altrove eseguì ritratto di profeti ed apostoli, santi e angeli, ultime cene e cene in Emmaus, sacrifici d’Isacco e roveti ardenti, incoronazioni e glorificazioni della Vergine, agonie nell’orto e pentecosti... Un lavoro che dette da vivere agiatamente a lui e a alla sua famiglia: l’amata moglie Giacinta e tre figli cresciuti nella casa neogotica di Legnaro tuttora esistente. Una “casa d’artista” che sembra un castelletto, decorata da medaglioni con i ritratti dei grandi artisti, tra cui anche Dante, di cui leggeva e ammirava la Commedia illustrata dal Doré.
Domenico venne chiamato in tante chiese del Veneto, guadagnandosi la stima di tanti per la sua abilità nel disegno delle figure e nelle decorazioni, ligio ai dettami dei committenti, i parroci e le commissioni d’arte sacra. «Un’arte – scrive Mario Cappuzzo – d’impatto popolare, in grado di commuovere i più semplici tra i fedeli». Un’arte devozionale, intimamente finalizzata alla sacralità del luogo e del rito, capace soprattutto di destare tenerezza, ma che non manca di elementi personali: a volte i suoi personaggi hanno lo stesso sguardo dei contadini che tribolano e pregano. Anche se la vita quotidiana ha poco spazio in queste figure e in questi sfondi, in queste fughe d’angeli e di nuvole che vogliono soprattutto ispirare serenità e hanno come punti di riferimento Tiziano e Veronese, Tiepolo e Tintoretto, non certo le inquietudini delle avanguardie del primo Novecento.
Siamo nell’orizzonte indicato dalla rivista Arte cristiana, che cominciò a uscire nel 1913, che Cappuzzo leggeva assiduamente e di cui conosceva personalmente l’ispiratore, mons. Celso Costantini: L’arte sacra è a servizio del culto, arte liturgica. Poi vi è l’arte sacra narrativa, quella che ci descrive le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento o alcuni fatti di storia ecclesiastica. Essa ha fine didattico, catechistico, apologetico. Vi è l’arte sacra simbolica o allegorica...
Mons. Costantini è un nome che unisce i due Cappuzzo, padre e figlio, Domenico e Ugo. Egli fu cardinale e presidente della commissione pontificia d’arte sacra, ma nel 1922 divenne delegato apostolico in Cina e lì rivoluzionò il linguaggio dell’arte cattolica cinese favorendo l’utilizzo dello stile locale. Era lì quando vi arrivò con la moglie il giovane medico Ugo Cappuzzo...