A Vas rinasce l’antica cartiera di Venezia
Fondata dai Gradenigo e attiva dal 1640 al 1971, poi trasformata in impianto di pescicoltura, qualche anno fa era stata oggetto di un poderoso restauro ma solo da poco è di nuovo motore di attività culturali per la Sinistra Piave. Grazie all’impegno di un’associazione il cui nome rimanda all’antica e gloriosa tradizione del sito.
Il recupero ormai frequente di vecchi impianti di “archeologia industriale” permette di fare luce su aspetti della vita e dell’economia dei nostri territori che si erano dimenticati, e allo stesso tempo mette a disposizione nuovi spazi e opportunità da cogliere per lo sviluppo economico, culturale e turistico di aree che spesso non hanno grandi risorse.
È il caso di Vas e della ex cartiera, che riporta al centro dell’attenzione un’attività e un luogo da riscoprire.
Dopo il restauro avvenuto tra il 2005 e il 2012, c’è un’associazione, denominata significativamente La Charta, che sta cercando di dare nuova vita al complesso. Ma partiamo dalla storia: perché la questione della produzione di carta, per i veneziani, era una cosa seria.
«Dopo la scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa a opera di Vasco De Gama, che aprì nuove rotte commerciali – spiega Stefano Mazzalovo, autore del volume Storia di una cartiera Veneta Tre secoli di produzione della carta a Vas – il commercio con l’Oriente per i veneziani perse di interesse e i nobili si rivolsero alla terraferma dando vita sia ad aziende agricole che ad attività produttive. Tra queste le cartiere, che rappresentavano un buon mercato: non solo la Serenissima e gli enti religiosi ne usavano molta per la burocrazia amministrativa, ma era anche in crescita la richiesta di libri, di cui Venezia era la capitale europea della stampa. Altro mercato importante era l’impero Ottomano, che non aveva cartiere proprie».
Verso il 1640 la famiglia Gradenigo avviò quindi un impianto di produzione a Vas, dove esisteva già un’attività molitoria e dove le condizioni erano particolarmente favorevoli grazie alla presenza del Fium, breve corso d’acqua di risorgiva che garantiva acque costanti e pulite.
I Gradenigo a Vas potevano godere del diritto a usare l’acqua del Fium, fonte di energia meccanica ma anche materia prima per la lavorazione della carta assieme agli stracci.
A Vas inoltre scorre il Piave, al tempo una vera autostrada per il trasporto delle merci fino in laguna tramite le zattere provenienti dal Cadore.
«I Gradenigo però non producono direttamente – continua Mazzalovo – ma danno in gestione l’impianto a Francesco Bozzon, mastro cartaio a Riva del Garda. Anche la manodopera inizialmente non è del paese ma viene fatta giungere da altre cartiere, lombarde o venete, come Ceneda e Oliero. Per avere il primo mastro cartaio di Vas bisogna aspettare la fine del Seicento».
L’altra materia prima essenziale per produrre carta sono, come detto, gli stracci di canapa, lino e cotone.
Solo a metà dell’Ottocento si comincia a utilizzare anche il legno. L’acqua e le macine riducevano il tessuto in poltiglia, le fibre vegetali si depositavano su retine finissime formando uno strato che, asciugato, formava il foglio di carta.
Per essere utile alla scrittura, la carta veniva poi “collata” con una gelatina animale ricavata dagli scarti di conceria, altrimenti l’inchiostro si espandeva in un alone.
Nei secoli, la cartiera passò varie gestioni fra cui quella dei celebri Remondini, stampatori di Bassano
Nel 1818 muore l’ultima erede dei Gradenigo, Cornelia Dolfin, e nel 1826 l’opificio viene comperato da Giovanni Marsura, già gestore della tipografia del Seminario di Feltre.
Iniziano le innovazioni produttive proseguite, dopo il 1892, anche dal successivo proprietario, Giacomo Zuliani: quest’ultimo introduce l’energia elettrica, acquista una macchina per la produzione continua (dai singoli fogli si passa cioè alle bobine) e installa una motrice a carbone che richiede la ciminiera che esiste ancora oggi. Inizia anche la produzione di sacchetti di carta.
La Grande Guerra porta a Vas la linea del fronte ed è l’artiglieria italiana a distruggere gran parte dello stabilimento (non la ciminiera!): il periodo d’oro è finito, ma l’attività prosegue, pur tra crescenti difficoltà.
Nel 1950 l’impianto conta ancora un centinaio di dipendenti. Una prima chiusura avviene nel 1961; termina ben presto pure il tentativo di darle nuova vita a opera di Carlo Zuliani, complice anche la disastrosa alluvione del Piave del 1966: cinque anni dopo la cartiera chiude definitivamente e i macchinari vengono venduti.
Per un periodo viene trasformata in allevamento di pesci, ma anche questo dura poco.
Solo negli anni Duemila si concretizza il nuovo recupero che ridarà vita a un complesso che alla comunità locale può dare ancora molto.
Alla base c’è il “patto territoriale” per lo sviluppo del basso Feltrino, protagonisti il comune e un consorzio di aziende private che finanziano opere di urbanizzazione e in cambio ottengono la proprietà di alcuni edifici per aprirvi attività artigianali.
«Il lavoro di recupero – racconta l’architetto Fabio Callegaro di Valdobbiadene, che ha curato l’intervento assieme alla collega Elena Bavero di Quero – è iniziato nel 2005: abbiamo trovato una situazione molto precaria, edifici abbandonati da anni e che avevano cambiato destinazione d’uso, essendoci stata nell’ultimo periodo un’attività stabile di troticoltura, con vasche per pesci, canali e attrezzature collegate. Interventi invasivi interni e esterni che hanno fatto perdere alcune tracce di canali preesistenti e di edifici antichi. C’è stata quindi una grande opera di ricerca sui sedimi storici e di pulizia, per togliere i volumi invasivi rispetto a quelli originari. Pulendo erano emersi alcuni problemi strutturali, ad esempio nella sala conferenze al piano primo e nella sala macchine al piano terra, dove erano danneggiate anche le strutture in acciaio: si è demolito e reintegrato, in accordo con la Soprintendenza, ma in maniera che si possa comprendere cosa è stato sostituito. I vetri sul pavimento che lasciano intravedere la sala sottostante – per esempio – erano i fori dei perni per la prima lavorazione della carta».
Cosa rimane da fare?
«La parte pubblica è funzionante e agibile – rileva Callegaro – ma c’è un progetto per rendere più fruibili le aree esterne, con interventi anche minimi. Si può lavorare anche sul legame dell’ex cartiera con il Fium, da cui scendevano le rogge che portavano acqua ai mulini, per permettere al turista la visita di spazi aperti molto interessanti, e dello stesso ambito del fiume. So che una parte dei fondi è già stato richiesto. Al momento invece la parte privata è ferma in attesa di trovare potenziali aziende che possano entrare e portare nuove sinergie»