Rifiuti, il business illecito che contamina il Veneto
Dal lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle “attività illecite connesse al ciclo di rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlate, Relazione territoriale sulla regione Veneto” si scopre che in Veneto si contano 485 siti contaminati, con gravi rischi per la salute dei cittadini e per il territorio. Senza contare il danno per gli enti locali, privi delle risorse necessarie alle bonifiche.
«In regione ci sono 1.500 impianti di trattamento di rifiuti speciali, il cui puntuale controllo risulta difficile da realizzare malgrado l'impegno di Arpa Veneto, con la conseguenza che, nelle pieghe delle verifiche e dei controlli effettuati, vengono comunque conferiti presso molti impianti rifiuti, anche pericolosi, che non potrebbero essere ricevuti in quanto non ricompresi nel relativo codice Cer (catalogo europeo dei rifiuti), ma che in virtù di un meccanismo illecito noto come “giro bolla”, a seguito di operazioni di illecita miscelazione, vengono poi smaltiti presso altri impianti compiacenti mediante la falsificazione dei documenti di accompagnamento» con conseguente distorsione delle regole di mercato.
Origina da questa constatazione il lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle “attività illecite connesse al ciclo di rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlate, relazione territoriale sulla regione Veneto”.
Dalle sue pagine si scopre che in Veneto si contano 485 siti contaminati, in molti dei quali «hanno operato società che per lunghi anni hanno gestito illecitamente i rifiuti speciali, anche pericolosi, e che dopo il sequestro degli impianti da parte dell'autorità giudiziaria sono state dichiarate fallite».
Dalla relazione emerge anche che lo scopo del “giro bolla” non è soltanto quello di rendere il rifiuto conforme alle autorizzazioni dell’impianto di destinazione, ma anche quello di ridurre al massimo i tempi tra l’ingresso dei rifiuti nell’impianto e la loro uscita: meno ore di sosta dell’automezzo e meno ore di lavoro, ma soprattutto meno tempo un rifiuto rimane in un impianto di stoccaggio, maggiore è la sua capacità di riceverne altri e quindi di aumentare il business.
«I tempi di permanenza di un rifiuto in un impianto si possono ridurre, se i responsabili della gestione riescono a trovare altri impianti, disposti a riceverli senza troppe formalità» e così succede che recuperare non conviene. «Nonostante l’imprenditore disonesto si ponga sul mercato per il recupero di rifiuti e, a tale titolo, prenda i relativi appalti o i conferimenti, in realtà non svolge alcuna attività di recupero».
Se non funziona il sistema dei controlli il fenomeno tende a espandersi, e per questo vengono adottate dalle aziende una serie di accortezze per evitare i controlli ricorrendo ad accorgimenti contabili, documentali oppure anche organizzativi.
Poi «quando arriva il controllo che trova qualcosa che non va, vi è il procedimento penale, ma l’imprenditore e il difensore che lo assiste sanno benissimo che il reato contravvenzionale si prescrive velocemente e che la materia è molto tecnica e di difficile accertamento, sicché si può sempre contrapporre una buona consulenza di parte alla perizia d’ufficio, con la conseguenza che diventa molto più conveniente operare in modo illecito, piuttosto che rispettare la norma. Soltanto quando interviene il sequestro dell’azienda, l’assetto economico viene turbato radicalmente».
Il fenomeno in Veneto è risultato molto diffuso e dalla relazione emerge un sistema illecito di smaltimento di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, da parte di un numero considerevole di aziende industriali venete produttrici che appare «altamente pervasivo, significativo per dimensione, nonché alternativo a quello legale; un sistema che, malgrado l'assenza della criminalità organizzata, posta in evidenza dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Venezia, sconta tuttavia un atteggiamento di diffusa omertà tra gli operatori economici».
Vale a dire che per profitto i rifiuti speciali sono state immessi sul mercato come materia prima secondaria e quindi utilizzati ampiamente anche in opere pubbliche quali i sottofondi stradali e ferroviari, miscele di rifiuti pericolosi.
Non solo. I costi derivanti dallo sgombero dei rifiuti pericolosi, dalla messa in sicurezza e la successiva bonifica dei siti contaminati, anche per molte decine di milioni di euro, sono rimasti a carico degli enti territoriali, con una sola conseguenza: privi dei soldi necessari, i comuni fanno portar via i rifiuti più pericolosi e lasciano le aree a un triste e pericoloso abbandono.